A Torino la mostra coloniale “Africa. Le collezioni dimenticate”. Approssimativa, incompleta e piena di errori

A Palazzo Reale di Torino ha inaugurato “Africa. Le collezioni dimenticate” una “mostra che affronta il tema della colonizzazione italiana dell’Africa”. Almeno così dice il pannello introduttivo nella prima delle Sale Chiablese. “Non una mostra d’arte – afferma la direttrice Pagella – ma una mostra di storia”. Esposizione caratterizzata da errori grossolani, dimenticanze volute e omissioni colpevoli. Non le collezioni dimenticate ma una mostra da dimenticare. Da chiudere. Da rifare.
La prima metà dell’esposizione è dedicata al Congo belga, di Leopoldo II. Sono confuso! Non premette certo bene come inizio.
“Per i popoli africani, un secolo di violenza, di razzismo, di sfruttamento e di spoliazione” continua il pannello iniziale. Lasciate ogni speranza voi che entrate: la verità non è gradita. La pluralità osteggiata. Il confronto negato. I fatti superflui.

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Ecco quindi si spiegano le foto delle “donne e bambini con le mani mozzate” nello Stato indipendente del Congo creato nel 1885 da Leopoldo II del Belgio – ripetiamolo: del Belgio – poi divenuto colonia belga nel 1908 (anche se in un pannello erroneamente viene riportato il 1906), e l’associazione delle “atroci violenze” e il “lavoro forzato” con i tecnici italiani che in quegli anni prestarono la loro professionalità al Belgio, non in una colonia italiana, in particolare nel campo ferroviario (Pietro Antonio Gariazzo, Carlo Sesti e Stefano Ravotti).
La barbarie belga utilizzata come transfert tra il pannello introduttivo e i tecnici italiani: invece che essere considerati come un’eccellenza esportata all’estero vengono associati a soprusi: “un sistema di spoliazione delle risorse umane e naturali tra i più crudeli e violenti dell’epoca, fondato sul lavoro forzato e sulla negazione dei diritti fondamentali della persona. Numerosi furono gli italiani impiegati nell’amministrazione belga…” Bel giochino: davvero onesto!
Come il pannello dedicato a Vincenzo Filonardi “iniziatore della penetrazione economica e politica dell’Italia dell’Oceano Indiano”, nella sezione “Esploratori, avventurieri e consoli”, che dimentica di precisare che i “diversi accordi di protettorato sulla costa della Somalia” furono sottoscritti dietro un pagamento (affitto) di un un canone annuo di1.200 talleri, poi portati a 1.800, per il Sultanato di Obbia nel febbraio 1889 e due mesi dopo per il Sultanto di Migiurtinia. Dimentica, sempre il pannello sul Filonardi, di ricordare ai visitatori che l’italiano Filonardi liberava in Somalia, di cui fu primo governatore, i primi schiavi nel 1893 per conto della Società Antischiavista Italiana. Il primo schiavo liberato di chiamava Galla Abdallah.
Il pannello non precisa nemmeno che “i porti somali del Benadir, sulla costa meridionale della Somalia” vengono anch’essi affittati, nell’agosto 1892, non dai somali bensì dal Sultano di Zanzibar, che era succeduto nella dominazione di quelle regioni agli omaniti, ai persiani, agli arabi, ai portoghesi, agli egiziani e agli etiopi. Gli ultimi furono gli affittuari italiani.
Procedendo nell’esposizione tra lance, tamburi e scudi si giunge finalmente alla colonizzazione italiana decantata nel pannello introduttivo. Quel “destino africano” della retorica fascista. O no?
“Colonizzare la montagna: il Rwenzori”. Nel 1906 il Duca degli Abruzzi “guida la prima spedizione europea che arriva alla sommità del massiccio” ma bada bene, ci spiega il pannello, la sommità era protetta da un tabù che vietava di raggiungerlo e invece l’alterigia del Savoia-Aosta se ne appropria simbolicamente “attribuendo – pure – alle vette nuovi toponimi di membri della famiglia reale italiana”.
Quindi nulla ancora di colonialismo reale, materiali e fattivo dell’Africa, siamo al colonialismo simbolico ora. Colonialismo virtuale. Montagnoso.

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Nuova sala, forse ci siamo: “Dalla spartizione dell’Africa all’aggressione coloniale”. Finalmente la mostra ci… mostra quello che aveva promesso: una bella “aggressione coloniale” nel titolo che contrasta ridicolamente con la seconda riga: “con l’acquisto della baia di Assab (1882) e della città portuale di Massawa (1885)”. I noti acquisti aggressivi!
Segue la sala con le foto che “potrebbero urtare la vostra sensibilità”, avverte un cartello all’accesso di un ambiente con pannelli totalmente neri, prima erano verdi come le rigogliose lande africane, ora neri come la morte.
Primo pannello “Schiavitù e tratta degli schiavi”. Ci si deve soffermare a leggere l’intero pannello, per scoprire nell’ultima riga che, però in fondo, questa pratica barbara e disumana venne abolita dai paesi europei “in concomitanza con l’avvento del colonialismo”. Ah quindi qualcosa di buono durante il colonialismo lo si è anche fatto. Pare.
Un altro pannello ”Unioni e collaborazioni” denigra gli africani che collaborarono con i colonizzatori spiegandoci che erano “mossi da interessi legati al prestigio e all’ascesa sociale”, un simpatico giro di parole perché scrivere “negro da cortile” di malconiana x memoria pareva brutto.
Il pannello conclude, senza approfondire, senza spiegare, il “madamato” accollando l’usanza solo agli italiani e al “periodo fascista” sorvolando sul fatto che fosse un’antica tradizione consuetudinaria etiope il matrimonio per mercede, il dämòz, in amarico ba’al al dämòz o, anche, qeter che, molto significativamente, vuol dire affitto. Era una forma di unione regolata e retribuita con un assegno annuo pagato dal marito, era ammesso il divorzio con la massima semplicità e sollecitudine previo pagamento di tanti dodicesimi dell’assegno annuo quanti erano stati i mesi di convivenza della donna con il marito. Un TFR in poche parole… Ma su questo si sorvola.
Il pannello successivo è quello che dovrebbe essere il clou della mostra, quello che spazza via ogni dubbio sul mito degli italiani brava gente: “Le armi chimiche”.
Alla fine per questo è stata realizzata l’esposizione: “ un secolo di violenza, di razzismo”.
Il pannello descrive l’impiego delle armi chimiche durante la Guerra d’Etiopia in barba alla convenzione internazionale che lo stesso Regno d’Italia aveva firmato nel 1928.
Onta grave che rimane sulla Regia Aeronautica e su chi firmò gli ordini di utilizzare le bombe “speciali”: Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani. Ordini che vennero firmati dopo la morte del pilota Tito Minniti che, abbattuto dalla contraerea etiope, fu catturato evirato e decapitato. La testa venne infilzata su una lancia e fatta sfilare davanti al governatore dell’Harar che applaudì. Ma questo non lo si scrive sul pannello, potrebbe “urtare la vostra sensibilità” e perché, in fondo (ma non troppo), se lo meritava l’invasore. E poi l’Etiopia mica aveva sottoscritto la Convenzione di Ginevra trattamento umanitario dei prigionieri di guerra. Così come non aveva sottoscritto la convenzione del 1928 per la messa al bando delle armi chimiche.

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Altro pannello: “Haile Selassie il panafricanismo” con una bella immagine dell’Imperatore. Ci informa che “il movimento panafricanista promuove l’unità e la solidarietà tra afrodiscendenti e africani del continente, accomunati dall’esperienza della schiavitù, della colonizzazione e del razzismo”.
Però non è chiaro di quale schiavismo si parli: di quello abolito in Etiopia nel 1935 dai fascisti (colonialisti) oppure di quello gestito e avvallato da Hailè Selassiè nel suo paese prima dell’aggressione italiana?
Me lo domando perché in una memoria dell’8 aprile 1932 del Segretario Parlamentare John H. Harris indirizzata al Foreign Office si leggiamo: “Non credo che il nuovo Imperatore sia in grado di conoscere il numero degli schiavi che possiede. A centinaia essi si contano dentro i recinti delle sue terre e delle sue abitazioni. Ogni anno egli riceve doni di schiavetti di ambo i sessi”.
E il giorno seguente, il 9 aprile, sulle colonne del Times scriveva Lord Noel Buxton: “La schiavitù in Etiopia va di pari passo con l’assenza di ciò che noi chiamiamo un regime di governo. Essa è in parte il risultato e in parte la causa della debolezza del meccanismo statale che è poco più sviluppato di quello del Medio Evo”.
Forse devo finire i pannelli di questa sala per trovare le parole di Lady Katleen Simon: “L’Etiopia è la regione più arretrata del mondo e colà il problema della schiavitù è urgente” (dal suo volume “Slavery” del 1933).
Cerco nel prossimo, magari trovo citato Il giornalista inglese Patrick Balfour che nel 1935 scriveva: “Ho visto un popolo, l’etiopico, di civiltà bassissima, in uno stato primitivo di barbarie feudale simile a quello dell’Inghilterra del 1066” oppure l’intervento alla Camera dei Lords, del 17 luglio 1935, in cui Lord Noel Buxton denucua che “l’Etiopia è ancora il principale centro della schiavitù del mondo”.
No niente. Però trovo pannello “L’Indipendenza” con una bella foto di un colonizzato italiano, d’altronde la mostra “affronta il tema della colonizzazione italiana” diceva il pannello introduttivo. Leggo la didascalia: “Patrice Lumumba primo ministro del Congo, 1960”. No, il Congo non fu mai una colonia italiana. Resto di nuovo spiazzato.
Ma mi ricredo: “Il 1960 è identificato – leggo nel pannello – con l’anno dell’Africa perché diciassette paesi dichiarano l’indipendenza”. Ecco ora si parlerà della fine del colonialismo in Africa e di come il decolonialismo sia stato contrassegnato da eccidi, rappresaglie e barbarie inenarrabili: la lotta dei Mau Mau in Kenia con eccidi di coloni inglesi, le violenze nella Rhodesia e nel Mozambico, la guerra civile in Algeria mentre nella Somalia amministrata dall’Italia con l’AFIS “Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia” dal 1950 al 1960 sia avvenuta in maniera assolutamente pacifica e senza problemi tant’è che gli italiani vi rimasero a lavorare e vivere senza problemi fino alla guerra civile del 1991.
No, non mi sono ricreduto, di tutto ciò non v’è traccia. Non si cita l’AFIS e quindi si può evitare di precisare che si trattò dell’unico caso di amministrazione fiduciaria assegnata dalle Nazione Unite ad una nazione sconfitta nella seconda guerra mondiale e per di più su richiesta specifica del popolo somalo.
Passo ad un altro pannello “Restituzioni” il cui fulcro è la restituzione all’Etiopia, avvenuta nel 2008, dell’obelisco di Axum che nel 1937 era stato trasportato e installato a Roma come “trofeo di guerra”. Ora mi aspetto l’interessamento per la restituzione di quella dozzina di obelischi egizi che si trovano ancora nella capitale e magari l’abbattimento di quelli di Roma antica perché fu una civiltà anch’essa imperialista.

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“Violenze in Libia”. Una cruda immagine del maggio 1912 mostra alcuni libici impiccati. “Nei campi di concentramento muoiono migliaia di civili, deportati dalle zone fertili della Cirenaica per garantire terre ai coloni italiani”.
Quel criminale di Mussolini, quel “capobanda” di cazzulliana memoria. Lo sapevamo!
Ma andiamo a verificare, banalmente online, un Regio Decreto del 1922. Anno della Marcia su Roma. Un decreto firmato il 17 luglio 1922 che autorizzava l’impiego dei gas (e istituzione dei campi di concentramento) in Cirenaica.
Ah il “capobanda” non si sment… Un attimo: luglio. Si 1922, ma luglio. La Marcia su Roma avviene il 28 ottobre, quattro mesi dopo. Ma allora chi firmò quel decreto?
Lo firmò il ministro delle Colonie del governo Facta: Giovanni Amendola, esponente liberaldemocratico, già socialista e repubblicano e padre del futuro leader comunista Giorgio.
Fu lui a imporre il pungo di ferro per la riconquista e pacificazione della Libia in due suoi discorsi in Senato: il 1° aprile e il 22 giungo 1922.
Ne scrisse anche Renzo De Felice: «Il Ministro delle Colonie che ricordiamolo, era stato uno dei principali ispiratori del Gruppo Nazionale Liberale, Giovanni Amendola, riuscì a far prevalere la necessità di usare la maniera forte per imporre l’ordine, il rispetto della autorità e della “bandiera italiana” in Libia», ma scrivere è inutile se poi per ordire mostre non si legge.
Proiezione video. Tra i classici video dell’Istituto Luce emerge un documentario realizzato in Somalia da Carlo Pedrini sulla ferrovia somala (nessun accenno sulla sua costruzione ed esercizio) e il Villaggio Duca degli Abruzzi. Si di quel principe che colonizzava virtualmente e simbolicamente le vette delle montagne africane.
Il video, realizzato dal cine-operatore del governo, proviene dal’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino (ANCR). Un filmato che, nella mostra si tiene a sottolineare, deriva da “una visione che coincide, anche per il posizionamento della macchina da presa, con quella del dominatore europeo”. Eh si, perché solitamente le riprese non corrispondono all’interesse comunicativo e narrativo di chi le realizza…
Ma il fatto singolare è che chi scrive, anni fa questo video lo ha visionato interamente, circa 40/50 min, presso l’ANCR in corso Valdocco a Torino ed ha potuto apprezzare come si stata abilmente tagliata la parte in cui il Duca degli Abruzzi paga i dipendenti somali dell’azienda agricola. Ma eccola qui la parte omessa (potete notare in basso a sinistra la sigla ANCR).Segue un’immagine a tutta parete del Principe Umberto in vista in Libia. Il contenuto del pannello fa un minestrone tra la guerra italo-turca (1911-1912), con i campi di concentramento (1922), con le varie fasi della riconquista, pacificazione e operazioni di polizia coloniale che vanno dal 1921 al 1932, in diverse fasi e regioni, per giungere poi al governatorato di Italo Balbo dal 1934 con la chiusura dei campi di concentramento.
Ma il pannello non ha spazio a sufficienza per riassumere più di trent’anni di storia coloniale della Libia, quindi semplifica: “brutale repressione – muoiono migliaia di civili – deportati – violenta eredità”. Chiuso. Non perdiamo tempo, mica con una mostra si vorrà fare come i fascisti nei “campi di rieducazione”: educare (chi ha pagato il biglietto).

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Altro pannello. Dedicato all’”Archeologia italiana in Libia”. Eccola qui la deprecabile “spoliazione” annunciata all’ingresso della mostra. Ma anche in questo caso si rimane stupiti: “scavi sistematici” e “adozione di provvedimento di tutela analoghi a quelli vigenti in Italia e volti a impedire gli scavi abusivi e il commercio abusivo dei reperti”.
Finalmente un fattore positivo. Anzi no: fu solo propagando fascista per “alimentare la retorica di un glorioso ritorno alla romanità”. Pensate: una propaganda così retorica che in Italia, e lo dice un altro pannello, fu portata solamente la Venere di Cirene. Null’altro.
E gli altri reperti? Le altre statue? Non si sa. Almeno in questa mostra non è dato saperlo, perché se no come si potrebbero motivare le decantate ed esecrabili “spoliazioni”?
In tutta la Libia vennero svolti notevoli campagne archeologiche, da Leptis Magna a Sabratha, a Tripoli. Inaugurati musei in loco e ogni opera lasciata in situ. Ma di questi musei non v’è traccia nei pannellini. Non c’era spazio. Troppo piccoli.
Tra un pannello e l’altro nessuno si è ricordato di informare i visitatori che le colonie italiane furono le più ricche di capitali investiti in tutta l’Africa.
Cambiamo sala e sezione. Entriamo nel vivo (finalmente) dell’esposizione: “Somalia”. Si, questa fu una nostra colonia. Quella affittata nel 1889 ma che nessuno a inizio del percorso ve l’ha detto.
La Somalia si caratterizza per “la nascita di forme di colonizzazione agricola: la S.A.I.S. di Luigi Amedeo Duca degli Abruzzi”.
La S.A.I.S. per chi non lo sapesse, e a chi ha scritto il pannello non frega nulla che lo sappia, fu la “Società Agricola Italo-Somala” appunto fondata a diretta dal Duca degli Abruzzi, l’industria più fiorente di tutta la Somalia che sopravvisse fino al 1991.
E non interessa, ma lo spazio pannellistico, si sa, è tiranno, che il Duca degli Abruzzi è ricordato soprattutto per aver studiato e applicato un nuovo contratto di lavoro basato sulla compartecipazione, invenzione assoluta per l’Africa orientale, che garantiva notevoli vantaggi per i lavoratori: ognuna delle famiglie coloniche somale riceveva in consegna un podere, bonificato e irrigato dalla Società, per coltivarlo a metà con colture alimentari destinate al coltivatore, e metà con colture industriali che spettavano alla Società. Quel contratto che veniva onorato tutti i venerdì con la paga distribuita e consegnata personalmente dal Principe come si vede nel video dell’ANCR. Ah no, scusate, quella è la parte che è stata tagliata.
Questi contratti, detti di colonia, rispettavano il principio della libertà del lavoro cui l’Italia aveva aderito per il territorio metropolitano e per tutte le proprie colonie ratificando, nel giugno 1934 la convenzione internazionale del 1930 (n.29) per l’abolizione del lavoro forzato. Questo tipo di contratto fu ulteriormente perfezionato fino a renderlo un mezzo veramente efficace per attrarre e stabilizzare ed infine esteso a tutti gli altri comprensori agricoli della Somalia italiana dal 1929 con D.G. n.7475.
E credo che al pubblico della mostra non interessi e non giovi sapere che nel 1935 durante la conferenza internazionale sul lavoro di Parigi, questo tipo di contratto, fu definito “strumento apprezzabile di progresso civile sociale ed economico a beneficio dei lavoratori interessati”.

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Il pannello somalo chiude con “l’impianto di Genale di Cesare Maria De Vecchi, gestito ricorrendo a soprusi come le punizioni corporali e il lavoro coatto”.
Come da comunicato stampa l’intento dichiarato della reinterpretazione “in un’ottica post-coloniale” è stato centrato. Una reinterpretazione talmente riuscita che le concessioni agricole di Genale da governative, cioè statali, sono diventate “di Cesare Maria De Vecchi”. Genale invece fu il primo esperimento di colonizzazione sorretto dallo Stato, per interessamento diretto del de Vecchi, suddividendo i terreni in 83 concessioni divise in cinque zone, assegnandole a coloni italiani che più tardi formarono il Consorzio di Colonizzazione di Genale, il tutto grazie a una diga di 90 metri e 55 km di canalizzazioni, 12 km di decauville per trasportare i prodotti e 200 km di nuove strade camionabili. Ma dovendo reinterpretare “in un’ottica post-coloniale” i fatti come le strade. Le dighe e le canalizzazioni nelle colonie, miti falsi come gli italiani brava gente, vanno epurate dalla memoria e consegnate all’oblio.
Ricordate il titolo del pannello introduttivo alla mostra: “Contro l’oblio”. Proprio così.
Il de Vecchi, contrariamente agli abusi descritti nel pannello dove è definito quasi uno schiavista, si spese a contrastare per anni la schiavitù, di somali ai danni di altri somali, tanto da ricevere le minacce di un santone locale.
La questione ce la risolve Mohamed Issa Trunji, laurea in Giurisprudenza, somalo. Dal 1992 al 2006 ha lavorato per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) come “Senior Protection Officer” in Iran, Iraq, Sudan, Etiopia e Zambia e nel 2015 ha pubblicato il volume “Somalia – The untold history”.
Nel testo scrive: “uno dei più recalcitranti fra i capi tradizionali somali fu Sheikh Hassan Bersane, un religioso della tribù Galjel, che condannò l’ordine governativo e reclamò il diritto di opporsi all’abolizione della schiavitù” (pag. 19 dell’edizione italiana).
Trunji riporta per intero una lettera dello schiekh somalo inviata al Residente di Merca nella quale gli intimava di rendergli i suoi schiavi: “Tutti i nostri schiavi sono fuggiti e passati dalla sua parte e lei ha dato l’ordine di liberarli. Quest’azione non ci rende felici. Secondo la nostra legge, noi possiamo mettere i nostri schiavi in prigione e sottoporli a lavoro forzato…” era il 12 marzo 1924.
E che così la commenta: “Lo Sheikh sembrava più preoccupato per la perdita dei suoi schiavi che per altre considerazioni. Rivendicava il diritto di sfruttare e disumanizzare altri esseri umani nati liberi come lui in nome della religione” (pag. 20 dell’edizione italiana).
Il pannello sconosce totalmente la circolare del 14 Giugno 1926 proprio del de Vecchi: “Avviene assai spesso di sentir parlare di “proprio spettanza”, di “propria mano d’opera”, di “assegnazione ordinaria o straordinaria”, […] come se ciascun bianco che arriva qui dall’Italia, […] avesse pieno diritto di tenere per forza al suo servizio un certo numero di indigeni e di pagarlo o non pagarlo se e come crede, e di trattarlo… come purtroppo è avvenuto.
[…] in Somalia vige per legge il Codice penale italiano per bianchi e neri; […] Ma la precisa informazione che qui intendo dare […] e che la organizzazione e l’impiego dell’ascendente enorme del Governo e del Governatore sugli indigeni hanno lo scopo umanitario, disciplinare e fascista di un graduale avviamento al lavoro di queste popolazioni, e non mai di qualsiasi coazione che crei larvate schiavitù o servitù della gleba, e meno che mai a semplice uso od abuso e servizio di privati”.
Però giustamente se la mostra deve reinterpretare la verità diventa bugia e l’antischiavista diventa schiavista. Orwell ringrazia.

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Nella sezione somala vengono esposti in apposite teche album fotografici, il cui contenuto non è purtroppo mostrato, contenenti le foto del viaggio in Somalia nel 1928 di Umberto di Savoia, Principe di Piemonte, che nella didascalia di quella che viene definita “non una mostra d’arte, ma una mostra di storia”, viene indicato come “Umberto II”. Leggerezza di non poco conto dal momento che nel 1928 Umberto di Savoia era, appunto, solo Principe e non ancora Re. In quell’anno e per diversi anni ancora regnò suo padre Re Vittorio Emanuele III.
La mostra appena entrata nel clou volge invece quasi al termine.
Pannello sulla “Chiesa etiope” che illustra succintamente la storia dei cristiani ortodossi in Etiopia. Chiesa che “si mantiene ostile all’occupazione coloniale italiana, subendo brutali rappresaglie culminate nel massacro di centinaia di monaci del convento di Debra Libanos trucidati nel 1937 per ordine del Generale Graziani”.
Quindi per il solo fatto di essere ostile Graziani, che in questo caso era Viceré e non Generale come indicato, fa trucidare un imprecisato numero di monaci?
Il numero, ignorato nel panello, venne comunicato tramite telegramma dello stesso Viceré: giustiziati 297 monaci e 23 laici sospetti di connivenza. Nei giorni successivi vennero poi fucilati 129 diaconi (le vittime di Debra Libanos non sono da confondere con il cosiddetto “massacro di Addis Abeba” avvenuto nell’immediatezza dell’attentato sul quale gli storici non sono ancora concordi sull’esatto numero).
Ma Graziani ordinò una strage solo per antipatia? Ovviamente no.
Era la mattina del 19 febbraio 1937, Graziani subì un attentato da parte della resistenza locale, mentre durante una manifestazione pubblica distribuiva denaro ai poveri di Addis Abeba. Era un’antica tradizione abissina, con la quale il Viceré voleva dimostrare la generosità del governo italiano.
Nell’attentato, avvenuto con il lancio di 8 granate, morirono 7 persone: un carabiniere, due soldati di sanità, due zaptié, un tecnico italiano e un chierico copto.
I feriti furono una cinquantina, tra cui lo stesso Graziani, il generale Gariboldi, il vice-governatore generale Armando Petretti, i generali Armando e Liotta (il più grave: perse l’occhio destro e una gamba), i colonnelli Mazzi e Amantea, il governatore di Addis Abeba Siniscalchi, l’onorevole Fossa, il federale Cortese, l’abuna Cirillo, l’ex ministro etiopico a Roma Ghevre Jesus Afework oltre ai giornalisti Mario Appelius, Pegolotti, Ciro Poggiali e Italo Papini.
Ecco quindi spiegata, non nel pannello, il motivo della dura repressione: gli attentatori, Abraham Deboch e Mogus Asghedom, erano fuggiti in auto con il complice Semeon Adefres, trovando rifugio nella città conventuale di Debra Libanos dove si nascosero per fuggire alla cattura.
Tra gli ultimi pannelli etiopi troviamo quello sbrigativo “Etiopia: l’occupazione militare”. Nel quale il Generale De Bono diventa DEL Bono, dove ci si affretta a dire che venne sostituito “con Pietro Badoglio” il gasatore, ma glissa sul fatto che fu il promulgatore il 14 ottobre 1935 del bando di soppressione della schiavitù nel Tigrè, regione dell’Etiopia appena conquistata.
La mostra termina con “un intervento site-specific” dell’artista etiope Bekele Mekonnen: The Smoking Table. Opera suggestiva.

di Alberto Alpozzi

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3 thoughts on “A Torino la mostra coloniale “Africa. Le collezioni dimenticate”. Approssimativa, incompleta e piena di errori

  1. Come sempre Alberto, il tuo serio lavoro riporta la verità storica e rende giustizia al comportamento serio e corretto degli italiani che hanno operato in Africa.

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