Ritratto e storia del Duca degli Abruzzi pioniere nella Somalia

Luigi-Amedeo-Giuseppe-Maria-Ferdinando-Francesco-dAbruzziS.A.R. Luigi di Savoia, Duca degli Abruzzi, figlio di Amedeo di Aosta (e quindi nipote di Umberto I), nacque a Madrid nel 1873, quando il padre era Re di Spagna. Ebbe una vita avventurosa sin dalla più giovane età; ancora sedicenne, allievo della Morosini di Venezia, si imbarcò nel 1889 come membro dell’equipaggio della R.N. Volturno in un viaggio che lo portò a visitare l’America Latina, le Canarie, il Portogallo ed infine le coste dell’Africa Orientale. Ai primi del ‘900 assistette dalla R.N. Staffetta al passaggio dei poteri sui primi insediamenti italiani in Somalia dal Sultano di Zanzibar alla Compagnia Filonardi, poi sostituita dall’amministrazione diretta da parte dello Stato italiano.
Mentre altri giovani Principi, Duchi e nobili vari erano indaffarati con la vita di corte che ruotava intorno a Casa Savoia, il Duca degli Abruzzi a trent’anni aveva già scalato il monte Sant’Elia in Alaska, condotto l’esplorazione del Polo Nord nella quale giunse a breve distanza dalla meta, scalato il Ruwenzori ed esplorati i circostanti monti della luna ed infine organizzato e diretto la prima spedizione che scalò il Karakorum. Per il Duca furono 15 anni di esplorazioni, viaggi, acquisizioni di conoscenze che arricchirono il suo bagaglio professionale. In effetti furono soprattutto le visite in’Africa Orientale, quelle che fecero maturare in Lui la volontà di passare dalla ricognizione alle realizzazioni pratiche. Nel frattempo, tra l’inizio della guerra di Libia e la successiva Grande Guerra mondiale, fu nominato Comandante dell’arsenale di La Spezia, prese parte alla guerra Italo-turca a bordo della R.N. Vettor Pisani ed infine fu nominato Ammiraglio della flotta a Taranto, quindi in questi otto anni dovette accantonare ogni progetto civile.
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luigi-amedeo-duca-degli-abruzziFinita la guerra giunse il momento adatto per dedicarsi all’attività di pioniere nelle terre Somale che aveva già visitato una ventina di anni prima e che gli erano sembrate adatte allo sviluppo economico produttivo con potenzialità nel campo dei prodotti “tropicali” quali il cotone a fibra lunga, lo zucchero di canna, le banane, i cocchi ed i semi oleosi. A questa attività il Duca si dedicò con il massimo impegno, portandola a compimento in un lasso di tempo abbastanza breve (una decina d’anni), se commisurato ai normali tempi delle bonifiche agrarie, partendo dalla savana selvaggia, in luoghi il cui solo accesso era a quei tempi problematico, utilizzando mezzi meccanici ben diversi da quelli disponibili nei decenni successivi…
A questo punto occorre fare un quadro generale della realtà somala all’epoca in cui si trovò ad operare il Duca pioniere. La Somalia è sempre stata un paese di scarse possibilità agricole (soprattutto se paragonato ad altre realtà africane (Kenya, Uganda, etc.) in quanto le risorse idriche che in ogni paese del mondo condizionano l’attività agraria sono piuttosto scarse. La superficie utilizzabile dal punto di vista agrario in modo intensivo consiste nelle fasce rivierasche dei due unici fiumi che l’attraversano e cioè il Giuba e lo Scebeli per una lunghezza di 250 Km il primo (Bardera – Kisimaio), circa un migliaio il secondo.
I primi tentativi di valorizzazione agraria in Somalia ebbero inizio proprio lungo il fiume Giuba (riva sinistra in mano italiana mentre la riva destra era ancora sotto il dominio inglese) ad opera di un nobile Polacco il Barone Frankestein, suocero del Principe Urbano Barberini, le cui vicissitudini ho ricostruito in alcune note dedicate alla straordinaria vita di quest’altro pioniere il quale era amico sia del Duca di Torino (fratello del Duca degli Abruzzi), sia dello stesso Duca. Ambedue preferivano l’ignoto delle savane africane, dove l’individuo doveva trarsi d’impaccio con le sue sole forze ed i suoi soli mezzi, in situazioni assolutamente impreviste ed imprevedibili. Per completezza occorre dire che anche la cognata del Duca degli Abruzzi, la Duchessa d’Aosta, moglie del Duca Emanuele Filiberto e madre dei due Duchi Amedeo ed Ajmone, aveva simili attitudini, se agli inizi del ‘900 aveva avuto l’animo di passare, per puro spirito di avventura, diversi giorni sulla riva del Giuba, ospite del Barone Frankestein, in situazioni logistiche presumibilmente molto disagevoli.
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luigi-di-savoia-duca-degli-abruzzi-somalia-2Mentre sul Giuba si dava inizio tra mille difficoltà alle prime opere di valorizzazione agraria, lo Scebeli era rimasto quasi inesplorato e fu proprio su questo fiume che si indirizzò l’interesse del Duca degli Abruzzi in quanto, diversamente dal Giuba, esso era un corso d’acqua pensile e quindi con opportune derivazioni, avrebbe potuto consentire l’irrigazione e la messa in coltivazione di vaste aree. La zona prescelta fu quella non lontana da Mogadiscio (90 Km) e con vaste pianure incolte e “facilmente irrigabili”. Altro elemento importante fu la constatazione dell’esistenza di una scarsa popolazione locale rispetto alle aree disponibili per cui non sarebbero sorti problemi di uso dei terreni. In effetti i terreni incolti furono acquisiti in leasing novantennale dalle “cabile” che ne rivendicavano la titolarietà, con facoltà per gli stessi abitanti di continuare ad usarne una parte usufruendo delle opere di bonifica generale in cambio delle prestazioni lavorative a favore del nuovo comprensorio. Il Duca prima di dare esecuzione al programma economico finanziario condusse un vero e proprio feasibility study con una spedizione scientifica di altissimo profilo professionale, composta dal dott. Giuseppe Scassellati Sforzolini (che doveva diventare il primo Direttore Generale della costituenda S.A.I.S – Società Agricola Italo Somala) e da tecnici vari (ingegner Agostinelli esperto in idraulica ed ingegneria rurale, topografo Bellandi, sig. Francesco Boero meccanico ed altri).
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Per valutare il livello scientifico di questa missione basta considerare che il Prof. Giuseppe Scassellati Sforzolini nato a Gubbio nel 1889, nel 1911, ancora studente presso l’Istituto Superiore agrario di Perugia, era partito per un viaggio in Africa per approfondire e rendersi conto personalmente delle problematiche agricole dei paesi tropicali; egli purtroppo, dopo appena dieci anni dalla costituzione della SAIS nel febbraio 1930, morì al Villaggio Duca degli Abruzzi, appena in tempo per vedere l’opera, di cui era stato l’animatore, coronata da successo con la costruzione di vari stabilimenti industriali (zuccherificio, oleificio, sgranatura cotone etc.) La sua attività si svolse in perfetta sintonia con Il Duca degli Abruzzi in quanto entrambi operavano nel presupposto che i vertici di qualsiasi impresa non potevano limitarsi a impartire disposizioni ma dovevano assolutamente convincere i subordinati con il proprio personale buon esempio, cosa molto apprezzata dalle popolazioni somale particolarmente portate ad eseguire qualsiasi compito affidatogli a condizione di ricevere il buon esempio da chi impartisce le disposizioni.
Impianto idrovoro della SAISEseguiti i necessari accertamenti tecnici e visti i risultati positivi degli stessi, prima di assumere i necessari impegni finanziari con la costituzione di una società ad hoc ( SAIS), il Duca cercò la soluzione dell’ultimo problema, quello più spinoso, articolato in due tematiche strettamente connesse: come potevano essere acquisiti i terreni adatti all’impresa e reperiti i lavoratori agricoli necessari. Occorre ricordare che stiamo parlando degli anni 1919-1920 e cioè il periodo coloniale pre-fascista (periodo che cominciò con la nomina a Governatore nell’ottobre del 1923 del Conte C.M. de Vecchi di val Cismon, quadrumviro del regime). Fu proprio grazie al clima politico di quell’epoca che il Duca ebbe la possibilità di improntare la sua azione ad un profondo senso di umanità e di correttezza nei riguardi delle popolazioni locali. Non solo, ma possiamo tranquillamente aggiungere che il Duca ha sempre mal sopportato il modus operandi del Quadrumviro nonostante che lo stesso fosse, non solo un esponente del regime, ma anche un fedelissimo di Casa Savoia. Per uno strano scherzo del destino la stessa incompatibilità si ripropose nuovamente tra il Duca Amedeo d’Aosta, suo nipote, ed il regime rappresentato dal Ministro Lessona, in Etiopia, soprattutto nel campo dei rapporti tra italiani e sudditi dopo la conquista dell’Impero.
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01La missione esplorativa di cui si è parlato sopra accertò che la zona suscettibile di buona valorizzazione agricola era di oltre 30.000 Ha, mentre la popolazione su di essa insediata era di non oltre 11.000 famiglie. Per il diritto consuetudinario somalo la proprietà terriera non apparteneva ai singoli individui, bensì all’intera comunità (clan-cabila) che poteva difenderne il possesso nei confronti di terzi estranei; quindi la cabila era nello stesso tempo garante del pacifico godimento e sola autorità che assegnava gli appezzamenti di terreno in uso alle singole famiglie del clan. Le cabile interessate nell’area erano soprattutto Scidle e Ualamoi, tutte genti dedite all’agricoltura ed alla pastorizia stanziale sin da tempi remoti. Senza entrare nei dettagli delle tecnicalità giuridiche piuttosto complesse, dato l’ordinamento fondiario nell’ambito del quale si doveva operare, ed in piena sintonia con il Governatore dell’epoca (1920), fu stipulato un patto con le cabile Scidle di riva destra e sinistra gravitanti su un territorio di circa 30.000 ha. In forza di questo patto i somali restavano padroni delle terre di loro pertinenza individuale ma accettavano di rinunciare, a favore della società, alla libera disponibilità delle terre di proprietà comune. Erano inoltre salvaguardati a favore dei somali ogni diritto di successione, la conservazione dei luoghi santi (cimiteri e jamiee). In buona sostanza il Duca con questi accordi intendeva assicurare alla sua azienda una regolare base giuridica per ciò che concerneva la pertinenza delle terre. E ciò in pieno contrasto con quanto avveniva nel resto del territorio dove i terreni erano “indemaniati” e successivamente concessi dal Governo agli imprenditori agricoli che ne avessero fatta richiesta. In definitiva il Duca aveva in tal modo ottenuto una concessione che, invece di derivare dall’ Autorità coloniale, traeva la sua origine dalla libera volontà dei legittimi proprietari dei terreni.
Villaggio Duca degli Abruzzi_SomaliaLa costituenda società avrebbe poi acquisito in proprietà dalle cabile interessate una zona di qualche diecina di Ha situata in un’ansa del fiume, le terre di balguri, per l’installazione delle opere permanenti quali il centro direzionale, le varie fabbriche ed officine, i magazzini e depositi, le abitazioni degli impiegati e dipendenti della stessa società. Tale terreno venne comprato con regolare atto di acquisto stipulato con l’intervento del capo dei Qadi della cabila interessata e con pagamento in parte alla comunità ed in parte agli interessati che usavano detti terreni.
Per il terreno destinato alle piantagioni – non oltre 10.000 ha – (quindi un terzo della superficie totale), fu previsto che la proprietà rimanesse al gruppo etnico che la possedeva da tempi immemorabili, l’uso fosse concesso alla nuova società per un periodo stabilito per provvedere alle opere di valorizzazione fondiaria ed al conseguente sfruttamento. Per ciò che riguardava la mano d’opera, i coltivatori nativi avevano la scelta fra continuare la loro attività alle dipendenze della società o il trasferimento nei territori attigui (due terzi del totale). Il problema era complicato dalla scarsità degli abitanti in rapporto all’estensione del territorio (11.000 famiglie su decine di migliaia di ettari) per cui fu studiata una forma di contratto in compartecipazione che garantiva buoni vantaggi per i lavoratori al fine di invogliarli a prestare la loro opera, inducendoli a stabilizzarsi sul territorio. Tale contratto ottenne, cosa ignorata da molti, un riconoscimento ufficiale nel 1935, in occasione di una conferenza internazionale del lavoro tenutasi a Parigi, nel corso della quale fu definito “strumento apprezzabile di progresso civile, sociale ed economico a beneficio dei lavoratori interessati”.
La base del contratto era costituita dall’assegnazione al compartecipante di un ettaro di terreno bonificato cioè disboscato, livellato, canalizzato e dissodato nel quale esso si impegnava a coltivare una metà a mais per uso proprio e l’altra metà a cotone (o altro prodotto) da conferire alla SAIS contro un compenso adeguato alla qualità del raccolto. Essiccamento del sesamo nell'azienda della SAISQuesto sistema garantiva ai lavoratori una sufficienza alimentare (½ ha di mais dava agevolmente un raccolto di 10 Q.li due volte l’anno, quindi 2.000 kg per ogni famiglia), il ricavo del cotone ed infine la normale retribuzione prevista per la loro opera nelle colture industriali a conto diretto della Società. La Società pagava la costruzione di una abitazione tradizionale facilitandone il raggruppamento in villaggi etnicamente omogenei, dotati di moschea, negozi di vendita di beni di prima necessità e di un pozzo. Tra gli obblighi della Società vi erano quelli di corrispondere i premi di ingaggio, i permessi annuali per i lavoratori e quelli per le gestanti, oltre la totale assistenza medica. Qualche recente ipercritico ha obiettato che il salario per il lavoro prestato era alquanto basso, senza però tener conto che con l’autosufficienza alimentare ed abitativa, con la produzione di beni vendibili sul mercato, il salario era solo una parte del totale reddito familiare. Fu per questo che molti scelsero la tranquillità del lavoro sicuro al quale era connessa la possibilità di sfruttamento di un piccolo appezzamento di terreno nell’ambito della grande azienda SAIS, con godimento dei relativi prodotti, mentre altri si trasferirono nei terreni attigui organizzandosi in cooperative, rimaste attive per decenni, assistite tecnicamente dalla stessa SAIS. Il sistema compartecipativo si dimostrò tanto vantaggioso per i nativi rispetto alle condizioni in cui erano costretti ad operare prima dell’avvento della SAIS, che attrasse altri clan di agricoltori anche da oltre confine con l’Abissinia. Mi riferisco soprattutto agli Sciaveli stanziati nelle pianure di Callafo (subito a nord di Belet Uen e quindi del confine somalo-etiopico) che da secoli conducevano una vita ben grama. Se il raccolto era scarso per avversità climatiche, dovevano fronteggiare la carestia; se il raccolto era abbondante, venivano razziati dai confinanti abissini che se ne prendevano la parte più cospicua. Gli Sciaveli, capitanati dal loro Sultano il leggendario Olol Dinle, si trasferirono in massa nella zona di Giohar, andando a colmare le lacune di manodopera che l’enorme sviluppo della bonifica agraria e dell’annesso complesso industriale creavano.
1922, Villaggio Duca degli Abruzzi, Somalia - Escavatore al lavoro nel canale dello scaricatore di superficieTornando alle realizzazioni del Duca, ricordiamo che dopo la missione esplorativa e un approfondito studio di fattibilità, fu fondata a Genova la SAIS, con capitali di industriali cotonieri milanesi, armatori, finanzieri etc. Tra la nascita giuridica dell’impresa, il trasporto dei macchinari in Somalia (ove all’epoca non esistevano impianti portuali degni di questo nome) e l’inizio delle opere non passò certo più di qualche mese; l’anno successivo, il 1921, ebbero già inizio le opere di bonifica fondiaria, su una superficie totale di circa 10.000 ha, con la costruzione di una diga a stramazzo, opere idrauliche di presa sul fiume e scavo di diecine di km di canali di irrigazione; nel mentre si provvedeva alla costruzione degli edifici per i servizi tecnici (officine, etc.), degli edifici direzionali e delle abitazioni ed infine del complesso industriale dello zuccherificio con annessi impianti collegati (gruppi elettrogeni, impianti di lavorazione della melassa, impianti di distillazione dell’alcool, etc.)
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Durante questa impegnativa opera, il Duca esploratore trovò anche il tempo di esplorare tutto il corso del fiume dove scorreva la linfa vitale della sua impresa: l’Uebi Sceseli, di cui si conoscevano in modo approssimato le origini nella regione degli Arussi (piana di Hoghiso), scorreva poi in territorio talmente impervio che nessuno aveva mai percorso. Al Duca interessava non solo tracciarne fedelmente l’alveo, riconoscendo tutti gli affluenti che ne aumentavano la portata ma, in modo particolare, stabilire delle mini stazioni meteo in grado di dare precise indicazioni sulle precipitazioni atmosferiche che sarebbero poi finite in Somalia. Questa spedizione, durata qualche mese in terre e tra popolazioni inospitali che non riconoscevano alcuna Autorità neppure quella del Negus Tafari (che l’aveva autorizzata), mise in luce il carattere assolutamente pacifico di tutte le spedizioni tra genti che mai avevano visto l’uomo bianco, in ciò accomunandolo con due altri esploratori italiani dei quali in Italia si è persa la memoria proprio perché le loro esplorazioni furono coronate dal successo senza mai entrare in conflitto con le genti locali. Si ricorda Savorgnan di Brazzà che non solo esplorò il bacino del basso Congo, ma fu l’artefice della penetrazione francese in quei territori. Da sottolineare che oggi l’unica città africana che porta il nome di un esploratore è quella di Brazzaville i cui cittadini si sono sempre rifiutati di cambiare il nome in uno “post-coloniale”. L’altro personaggio è stato il Robecchi Bricchetti che alla fine dell’ 800 partì da Mogadiscio con 4 muletti e mezza dozzina di arabi yemeniti come scorta e a piedi traversò tutta la Somalia da Mogadiscio ad Obbia, Galcaio, Hargheisa fino a Berbera, raccogliendo una messe incredibile di dati etnici, scientifici, zoologici, botanici e con raccolta di esemplari di specie all’epoca ancora sconosciute che oggi sono nei vari musei italiani in particolare quello di Genova e quello di Pavia, sua città natale.
Villaggio Duca degli Abruzzi diga nei pressi della S.A.I.S.2Tutto questo fu realizzato in una diecina d’anni e completato prima della morte del Duca, avvenuta nel 1933. Egli ebbe la grande soddisfazione non solo di vedere il suo progetto completamente realizzato ma di avere la certezza di averlo fondato su basi talmente solide da essere sicuri della continuità nel futuro, in ogni possibile circostanza. Infatti, dopo il suo decesso, l’impresa continuò a prosperare con un costante incremento delle attività.
Nel 1941, con l’occupazione inglese della Somalia, il complesso agro-industriale di Giohar non patì alcun danno né ad opera della popolazione, né subì alcuna requisizione da parte delle Autorità di occupazione che invece requisirono molti mezzi ed attrezzature in altri comprensori agricoli. E tanto fu il rispetto per l’opera voluta dal Duca che il War Office emise un provvedimento ad hoc per la tutela dell’attività agro-industriale.
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L’opera del Duca degli Abruzzi però non sopravvisse solo alle peripezie belliche ma, dopo l’avvento dell’AFIS (Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia nel decennio 1950-1960), continuò ad espandersi sia come territorio coltivato (sorpassando i 10.000 Ha), sia come industria: si provvide al rinnovo dei macchinari agricoli ed industriali, con incremento delle produzioni e diversificazione delle stesse. Divenne importante anche la distillazione dell’alcool buon gusto, esportato in Europa per l’industria dei liquori (circa 100.000 ettanidri negli anni ’60); l’alcool cattivo gusto era venduto all’AGIP che, miscelandolo alla benzina in ragione del 20%, contribuiva ad alleggerire la bolletta energetica relativa ai carburanti per autotrazione.
La distilleria della Società Saccarifera SomalaLa saggia impostazione agro-industriale in un territorio ex colonia italiana permise nel 1963, tre anni dopo l’indipendenza, al Governo Somalo di avere una rilevante voce in capitolo su un complesso industriale di strategica importanza nazionale: basti ricordare che lo zucchero per le popolazioni somale è un alimento basilare fornitore di calorie a buon mercato; gli azionisti proprietari che erano succeduti al Duca nella conduzione della società seppero continuare nella tradizione di collaborazione con le popolazioni locali accettando di buon grado di cedere tutto il complesso agro-industriale ad una nuova società chiamata SNAI (Società Nazionale Agricola Industriale) il cui capitale sociale era diviso pariteticamente al 50% esatto tra il Governo Somalo e la vecchia titolare SAIS. Il Consiglio d’amministrazione era composto di sei persone, tre di nomina governativa e tre di nomina SAIS, con un Presidente di nomina governativa ed un AD di nomina SAIS. In questo modo, non essendoci prevalenza dell’uno o dell’altro azionista, entrambi erano motivati ad agire in piena concertazione, pena il fallimento dell’impresa che avrebbe comportato un danno enorme all’azionista italiano e la perdita di una produzione agro-industriale di cui il Paese aveva estremo bisogno. Questa collaborazione, durata 7 anni fino all’avvento della rivoluzione filo-sovietica di Siad Barre, diede risultati estremamente positivi con il rinnovo di tutti i macchinari e gli impianti dello zuccherificio e delle altre attività correlate, con la bonifica di terreni ancora incolti, la creazione di grandi bacini per accantonare le riserve idriche da utilizzare nei periodi di magra del fiume; dal punto di vista sociale, si provvedeva alla creazione di quadri dirigenti somali in grado di sostituire gli esperti italiani ancora presenti in loco. In effetti al momento della costituzione della SNAI tutto il personale espatriato ammontava ad un centinaio di unità di alta specializzazione, su una forza lavoro di varie migliaia di unità; 7 anni dopo detto personale era ridotto ad una trentina di specialisti ad alta professionalità, con un processo che nel giro di pochi altri anni ( il piano ne prevedeva tre) avrebbe portato alla quasi completa somalizzazione delle attività. Il 21 ottobre 1969 la rivoluzione di Siad Barre portò alla repentina (sei mesi) nazionalizzazione di tutto il complesso, con il licenziamento ed il rimpatrio dei pochi dirigenti e tecnici italiani rimasti; quel processo di cui si è parlato andò incontro ad una lenta ma inesorabile involuzione. Il seguito è stato un susseguirsi di abbandono e distruzione tanto che oggi non è rimasto in piedi nulla.
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di Gianfranco Cenci
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Romanizzazione_Jowhaar_Villaggio Duca degli Abruzzi
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