
Mentre altri giovani Principi, Duchi e nobili vari erano indaffarati con la vita di corte che ruotava intorno a Casa Savoia, il Duca degli Abruzzi a trent’anni aveva già scalato il monte Sant’Elia in Alaska, condotto l’esplorazione del Polo Nord nella quale giunse a breve distanza dalla meta, scalato il Ruwenzori ed esplorati i circostanti monti della luna ed infine organizzato e diretto la prima spedizione che scalò il Karakorum. Per il Duca furono 15 anni di esplorazioni, viaggi, acquisizioni di conoscenze che arricchirono il suo bagaglio professionale. In effetti furono soprattutto le visite in’Africa Orientale, quelle che fecero maturare in Lui la volontà di passare dalla ricognizione alle realizzazioni pratiche. Nel frattempo, tra l’inizio della guerra di Libia e la successiva Grande Guerra mondiale, fu nominato Comandante dell’arsenale di La Spezia, prese parte alla guerra Italo-turca a bordo della R.N. Vettor Pisani ed infine fu nominato Ammiraglio della flotta a Taranto, quindi in questi otto anni dovette accantonare ogni progetto civile.
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A questo punto occorre fare un quadro generale della realtà somala all’epoca in cui si trovò ad operare il Duca pioniere. La Somalia è sempre stata un paese di scarse possibilità agricole (soprattutto se paragonato ad altre realtà africane (Kenya, Uganda, etc.) in quanto le risorse idriche che in ogni paese del mondo condizionano l’attività agraria sono piuttosto scarse. La superficie utilizzabile dal punto di vista agrario in modo intensivo consiste nelle fasce rivierasche dei due unici fiumi che l’attraversano e cioè il Giuba e lo Scebeli per una lunghezza di 250 Km il primo (Bardera – Kisimaio), circa un migliaio il secondo.
I primi tentativi di valorizzazione agraria in Somalia ebbero inizio proprio lungo il fiume Giuba (riva sinistra in mano italiana mentre la riva destra era ancora sotto il dominio inglese) ad opera di un nobile Polacco il Barone Frankestein, suocero del Principe Urbano Barberini, le cui vicissitudini ho ricostruito in alcune note dedicate alla straordinaria vita di quest’altro pioniere il quale era amico sia del Duca di Torino (fratello del Duca degli Abruzzi), sia dello stesso Duca. Ambedue preferivano l’ignoto delle savane africane, dove l’individuo doveva trarsi d’impaccio con le sue sole forze ed i suoi soli mezzi, in situazioni assolutamente impreviste ed imprevedibili. Per completezza occorre dire che anche la cognata del Duca degli Abruzzi, la Duchessa d’Aosta, moglie del Duca Emanuele Filiberto e madre dei due Duchi Amedeo ed Ajmone, aveva simili attitudini, se agli inizi del ‘900 aveva avuto l’animo di passare, per puro spirito di avventura, diversi giorni sulla riva del Giuba, ospite del Barone Frankestein, in situazioni logistiche presumibilmente molto disagevoli.
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Per valutare il livello scientifico di questa missione basta considerare che il Prof. Giuseppe Scassellati Sforzolini nato a Gubbio nel 1889, nel 1911, ancora studente presso l’Istituto Superiore agrario di Perugia, era partito per un viaggio in Africa per approfondire e rendersi conto personalmente delle problematiche agricole dei paesi tropicali; egli purtroppo, dopo appena dieci anni dalla costituzione della SAIS nel febbraio 1930, morì al Villaggio Duca degli Abruzzi, appena in tempo per vedere l’opera, di cui era stato l’animatore, coronata da successo con la costruzione di vari stabilimenti industriali (zuccherificio, oleificio, sgranatura cotone etc.) La sua attività si svolse in perfetta sintonia con Il Duca degli Abruzzi in quanto entrambi operavano nel presupposto che i vertici di qualsiasi impresa non potevano limitarsi a impartire disposizioni ma dovevano assolutamente convincere i subordinati con il proprio personale buon esempio, cosa molto apprezzata dalle popolazioni somale particolarmente portate ad eseguire qualsiasi compito affidatogli a condizione di ricevere il buon esempio da chi impartisce le disposizioni.

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Per il terreno destinato alle piantagioni – non oltre 10.000 ha – (quindi un terzo della superficie totale), fu previsto che la proprietà rimanesse al gruppo etnico che la possedeva da tempi immemorabili, l’uso fosse concesso alla nuova società per un periodo stabilito per provvedere alle opere di valorizzazione fondiaria ed al conseguente sfruttamento. Per ciò che riguardava la mano d’opera, i coltivatori nativi avevano la scelta fra continuare la loro attività alle dipendenze della società o il trasferimento nei territori attigui (due terzi del totale). Il problema era complicato dalla scarsità degli abitanti in rapporto all’estensione del territorio (11.000 famiglie su decine di migliaia di ettari) per cui fu studiata una forma di contratto in compartecipazione che garantiva buoni vantaggi per i lavoratori al fine di invogliarli a prestare la loro opera, inducendoli a stabilizzarsi sul territorio. Tale contratto ottenne, cosa ignorata da molti, un riconoscimento ufficiale nel 1935, in occasione di una conferenza internazionale del lavoro tenutasi a Parigi, nel corso della quale fu definito “strumento apprezzabile di progresso civile, sociale ed economico a beneficio dei lavoratori interessati”.
La base del contratto era costituita dall’assegnazione al compartecipante di un ettaro di terreno bonificato cioè disboscato, livellato, canalizzato e dissodato nel quale esso si impegnava a coltivare una metà a mais per uso proprio e l’altra metà a cotone (o altro prodotto) da conferire alla SAIS contro un compenso adeguato alla qualità del raccolto.
Questo sistema garantiva ai lavoratori una sufficienza alimentare (½ ha di mais dava agevolmente un raccolto di 10 Q.li due volte l’anno, quindi 2.000 kg per ogni famiglia), il ricavo del cotone ed infine la normale retribuzione prevista per la loro opera nelle colture industriali a conto diretto della Società. La Società pagava la costruzione di una abitazione tradizionale facilitandone il raggruppamento in villaggi etnicamente omogenei, dotati di moschea, negozi di vendita di beni di prima necessità e di un pozzo. Tra gli obblighi della Società vi erano quelli di corrispondere i premi di ingaggio, i permessi annuali per i lavoratori e quelli per le gestanti, oltre la totale assistenza medica. Qualche recente ipercritico ha obiettato che il salario per il lavoro prestato era alquanto basso, senza però tener conto che con l’autosufficienza alimentare ed abitativa, con la produzione di beni vendibili sul mercato, il salario era solo una parte del totale reddito familiare. Fu per questo che molti scelsero la tranquillità del lavoro sicuro al quale era connessa la possibilità di sfruttamento di un piccolo appezzamento di terreno nell’ambito della grande azienda SAIS, con godimento dei relativi prodotti, mentre altri si trasferirono nei terreni attigui organizzandosi in cooperative, rimaste attive per decenni, assistite tecnicamente dalla stessa SAIS. Il sistema compartecipativo si dimostrò tanto vantaggioso per i nativi rispetto alle condizioni in cui erano costretti ad operare prima dell’avvento della SAIS, che attrasse altri clan di agricoltori anche da oltre confine con l’Abissinia. Mi riferisco soprattutto agli Sciaveli stanziati nelle pianure di Callafo (subito a nord di Belet Uen e quindi del confine somalo-etiopico) che da secoli conducevano una vita ben grama. Se il raccolto era scarso per avversità climatiche, dovevano fronteggiare la carestia; se il raccolto era abbondante, venivano razziati dai confinanti abissini che se ne prendevano la parte più cospicua. Gli Sciaveli, capitanati dal loro Sultano il leggendario Olol Dinle, si trasferirono in massa nella zona di Giohar, andando a colmare le lacune di manodopera che l’enorme sviluppo della bonifica agraria e dell’annesso complesso industriale creavano.


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Durante questa impegnativa opera, il Duca esploratore trovò anche il tempo di esplorare tutto il corso del fiume dove scorreva la linfa vitale della sua impresa: l’Uebi Sceseli, di cui si conoscevano in modo approssimato le origini nella regione degli Arussi (piana di Hoghiso), scorreva poi in territorio talmente impervio che nessuno aveva mai percorso. Al Duca interessava non solo tracciarne fedelmente l’alveo, riconoscendo tutti gli affluenti che ne aumentavano la portata ma, in modo particolare, stabilire delle mini stazioni meteo in grado di dare precise indicazioni sulle precipitazioni atmosferiche che sarebbero poi finite in Somalia. Questa spedizione, durata qualche mese in terre e tra popolazioni inospitali che non riconoscevano alcuna Autorità neppure quella del Negus Tafari (che l’aveva autorizzata), mise in luce il carattere assolutamente pacifico di tutte le spedizioni tra genti che mai avevano visto l’uomo bianco, in ciò accomunandolo con due altri esploratori italiani dei quali in Italia si è persa la memoria proprio perché le loro esplorazioni furono coronate dal successo senza mai entrare in conflitto con le genti locali. Si ricorda Savorgnan di Brazzà che non solo esplorò il bacino del basso Congo, ma fu l’artefice della penetrazione francese in quei territori. Da sottolineare che oggi l’unica città africana che porta il nome di un esploratore è quella di Brazzaville i cui cittadini si sono sempre rifiutati di cambiare il nome in uno “post-coloniale”. L’altro personaggio è stato il Robecchi Bricchetti che alla fine dell’ 800 partì da Mogadiscio con 4 muletti e mezza dozzina di arabi yemeniti come scorta e a piedi traversò tutta la Somalia da Mogadiscio ad Obbia, Galcaio, Hargheisa fino a Berbera, raccogliendo una messe incredibile di dati etnici, scientifici, zoologici, botanici e con raccolta di esemplari di specie all’epoca ancora sconosciute che oggi sono nei vari musei italiani in particolare quello di Genova e quello di Pavia, sua città natale.

Nel 1941, con l’occupazione inglese della Somalia, il complesso agro-industriale di Giohar non patì alcun danno né ad opera della popolazione, né subì alcuna requisizione da parte delle Autorità di occupazione che invece requisirono molti mezzi ed attrezzature in altri comprensori agricoli. E tanto fu il rispetto per l’opera voluta dal Duca che il War Office emise un provvedimento ad hoc per la tutela dell’attività agro-industriale.
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L’opera del Duca degli Abruzzi però non sopravvisse solo alle peripezie belliche ma, dopo l’avvento dell’AFIS (Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia nel decennio 1950-1960), continuò ad espandersi sia come territorio coltivato (sorpassando i 10.000 Ha), sia come industria: si provvide al rinnovo dei macchinari agricoli ed industriali, con incremento delle produzioni e diversificazione delle stesse. Divenne importante anche la distillazione dell’alcool buon gusto, esportato in Europa per l’industria dei liquori (circa 100.000 ettanidri negli anni ’60); l’alcool cattivo gusto era venduto all’AGIP che, miscelandolo alla benzina in ragione del 20%, contribuiva ad alleggerire la bolletta energetica relativa ai carburanti per autotrazione.

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di Gianfranco Cenci
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