Riconquista della Libia. Il pugno di ferro di Amendola tra arresti e condanne a morte

Il 26 febbraio 1922 Giovanni Amendola, diviene ministro delle Colonie, col gabinetto Facta. Esattamente un mese dopo che Giuseppe Volpi, governatore della Tripolitana dal 16 luglio 1921 al 3 luglio 1925, aveva occupato Misurata Marina in Tripolitania.
Con Amendola al Ministero, è innegabile, la politica italiana in Libia cambiò totalmente direzione. Iniziò non soltanto la conquista militare ma anche soprattutto quella morale della popolazione.

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Giovanni Amendola

Inizialmente combattuto tra l’ideologia nittiana, di cui era seguace, del totale abbandono dello “scatolone di sabbia” e i doveri di ministro che doveva assolvere alla doverosa tutela degli interessi della nazione dichiarò in Senato il 1° aprile 1922:
«Nessun ordine sarà possibile nella Libia finché persisteranno le rivalità tra capi e capi, rivalità dalle quali, forse, in qualche momento, si è potuto credere per un’’inesatta visione delle cose, di trarre risultati per noi utili. Noi non desideriamo di collaborare a creare cause di dissenso, che poi si traducono fatalmente in cause di disordine e di ribellione; noi desideriamo invece, che in seno alle popolazioni dell’interno si creino elementi di concordia, ai quali la nostra politica potrà fare appello, non invano, per raggiungere un migliore assetto interno del paese. Ma è necessario che queste parole che sono l’espressione sincera dei fini verso i quali la politica del Governo intende orientarsi, non lascino sorgere alcun equivoco, nella mente di coloro che dirigono le popolazioni dell’interno, con i quali, in questo momento, siamo in dissenso. Se i capi dell’interno desiderano di giungere a una sincera pacificazione della Tripolitania, essi sanno, oggi, che la via maestra per giungere a tali obiettivi è aperta. Essi non hanno che da percorrerla con lealtà e sincerità. Ed il Governo nulla trascurerà oer dare, finalmente, alla Libia quella pace interna che è nel comune interesse di raggiungere. Ma se per caso i capi avessero in mente altri disegni, se essi dietro le loro richieste mirassero, per avventura, a tenere il paese in agitazione, perché questa agitazione è mezzo necessario per l’attuazione di disegni estremi di riscossa islamica, allora deve essere ben chiaro che il Governo non offrirà nessuna possibilità di accordo. Il Governo dovrebbe, in tal caso, mantenersi intransigente custode del la sovranità italiana e riservare all’avvenire quell’azione che nel presente non fosse possibile di compiere. Se si vuole la pacificazione, il Governo è pronto a collaborare per il raggiungimento di tale utilissimo fine; ma se a questo fine non si vuol giungere, il Governo saprà rammentare soltanto quello che è il suo superiore dovere: cioè tutela, nel presente e nell’avvenire, degli interessi e del diritto del nostro Paese» 1.

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Giuseppe Volpi

Il suo indirizzo lo chiarì nuovamente il 22 giugno, rispondendo ai socialisti Modigliani e Lizzari, che non solo ritenevano inutile lo sfruttamento economico della Libia ma avrebbero pure voluto abbandonare Eritrea e Somalia: «Le colonie italiane non rappresentano l’affermazione di un programma imperialistico sproporzionato alle esigenze reali del nostro Paese, non rappresentano la manifestazione di una volontà imperialistica ma sono il segno delle necessità di politica internazionale attraverso le quali è passato lo Stato italiano durante gli ultimi quarant’anni, e rappresentano la soluzione (buona o mediocre non importa indagarlo) che a quei problemi si è potuto dare. Ora chi abbia la responsabilità di quest’ufficio, non può che ispirarsi che a un programma che sia di conservazione del già fatto e che mantenga aperte le vie dell’avvenire». Subito dopo ribadì i principi di quella linea politica che rimase immutata fino alla fine del secondo conflitto mondiale a prescindere da qualunque “regime” politico: governare con e per le popolazioni. «Premesso che il regime umiliante della nostra occupazione entro il limiti dei reticolati appartiene al passato, e che l’Italia non potrà in nessun modo rinunciare al dovere di mantenere l’ordine e di tutelare la vita e gli averi delle pacifiche popolazioni, le quali hanno bene il diritto di vivere e di lavorare senza essere perennemente tormentate dal dissenso politico esistente tra alcuni capi e il Governo italiano, premesso questo, dichiaro che io desidero oggi, non meno di tre mesi fa, la più sollecita e la più definitiva pacificazione della Tripolitania. Ed anzi credo che la risoluta chiarificazione operatasi attraverso gli ultimi avvenimenti, spazzando via l’intrigo e la menzogna dei troppi intermediari parassitari che hanno fin qui speculato sulle difficoltà e sulla complessità della situazione, ci avvicini alquanto alla possibilità di dare alla Tripolitania un assetto tranquillo e definitivo».
Queste dichiarazioni permettono di cogliere l’inconfutabile continuità della politica coloniale italiana, dal 1922, ante fascismo, sino al 1940.

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Rodolfo Graziani

Politica precisata anche da Renzo De Felice: «Il Ministro delle Colonie che ricordiamolo, era stato uno dei principali ispiratori del Gruppo Nazionale Liberale, Giovanni Amendola, riuscì a far prevalere la necessità di usare la maniera forte per imporre l’ordine, il rispetto della autorità e della “bandiera italiana” in Libia»2.
Amendola aveva infine respinto nettamente l’ipotesi che ai capi locali fosse consentito di parlare “con l’autorità italiana da potenza a potenza” così che nell’aprile 1922, non appena si delineò una ripresa dell’attività ribelle, ordinò al Volpi di provvedere alla riconquista di tutta la Gefarah autorizzando l’utilizzo dei gas e firmando il 17 luglio il Regio Decreto per l’istituzione dei campi di concentramento.
La festosa accoglienza con cui le popolazioni accolsero i reparti italiani, il rapido succedersi delle sottomissioni costituirono la prova più palese e convincente della validità della nuova politica. Il Volpi, anzi, senza suscitare reazioni di sorta , non esitò ad agire con intransigenza contro due agitatori: ‘Abd ed-Salam el-Buseiri che, espulso da Roma, malgrado potesse vantare la protezione offertagli dal partito socialista, e della “Lega dei popoli oppressi”, fu arrestato su mandato di cattura emesso dall’autorità giudiziaria e condannato all’ergastolo il 10 dicembre 1922. Un altro personaggio, incallito razziatore, ebbe sorte più dura: arrestato con l’imputazione di aver massacrato, nel 1915, alcuni soldati italiani feriti caduti nelle sue mani, fu condannato a morte ìl 19 settembre 1922 dal tribunale militare speciale di Zawiyah e giustiziato, con l’espressa autorizzazione di Amendola, il giorno successivo.
Nel mentre nel Gebel, l’allora colonnello Rodolfo Graziani, stava ottenendo ottimi risultati travolgendo diversi insorti, le colonne del maggiore Tracchia e del capitano Corò entravano rispettivamente il 19 giugno e il 5 luglio a Fassatw e a Nalut. Con la rioccupazione di Jefren, nel Gebel Orientale, avvenuta il 30 ottobre 1922, possiamo considerare chiuso il ciclo di operazioni svoltesi durante la gestione Amendola. Antifascista, padre di Giorgio, ideatore dell’attentato di via Rasella.
Gli succederà al Ministero delle Colonie, con il neonato governo Mussolini, Luigi Federzoni.

di Alberto Alpozzi

NOTE
1. Atti del Parlamento Italiano – Camera dei Senatori – Sessione 1921-22, Discussioni – Legislatura XXVI, p. 2095
2. De Felice R., “Amendola ministro delle Colonie”, in Giovanni Amendola nel cinquantenario della morte, 1926-1976, Roma, Fondazione Feltrinelli, 1976

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2 thoughts on “Riconquista della Libia. Il pugno di ferro di Amendola tra arresti e condanne a morte

  1. CARO ALBERTO ANCHE QUESTO UN ARTICOLO INTERESSANTE CHE NELLA PRIMA PARTE MI HA FATTO RITORNARE ALLA MENTE LE LOTTE INTESTINE ODIERNE DELLA LIBIA …. BUON LAVORO CARO AMICO

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