Ero finalmente arrivato. Non vedevo l’ora di rivedere la stazione ferroviaria di Asmara. La targa impressa in caratteri romani era ancora lì, nella sala d’aspetto, in latino recita: “Alme sol, possis nihil urbe Roma visere maius” (Orazio – Carmen Saeculare) esattamente con sull’Arco dei Fileni sulla via Balbia in Libia.
Tutti in piedi, ogni mattina, alla scuola elementare “Pollera” dovevamo cantarla : “Salve dea Roma. Ti sfavilla in fronte il sol che nasce sulla nuova storia fulgida in arme, all’ultimo orizzonte sta la vittoria. Sole che sorgi libero e giocondo, sul colle nostro i tuoi cavalli doma: tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma”.
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A quell’età non si conosceva Orazio Flacco, l’autore dei versi, ne tantomeno Roma, un puntino sulla carta geografica ma dovevamo cantarli, fortunatamente non in latino.
Il capostazione, impettito nella sua divisa logora ed il cappello con lo stemma delle ferrovie eritree, lancia tre lunghi fischi e la littorina si mette in moto. Salgo e mi siedo su una delle panche in legno mentre già graziose ragazze in abiti tradizionali si apprestano ad apparecchiare per il rito del caffè.
La littorina sbuffando parte lentamente ed io decido di portarmi verso la cabina del ferroviere che conduce il mezzo, imbattendomi in una targhetta in alluminio posizionata sulla parete che divide il vano passeggeri dal conduttore.
Sopra con un bulino è riportato:
ASMARA Km 117,6
ARBAROBA Km 104,9
NEFASIT Km 93
EMBATKALLA: Km 81,1
GHINDA: Km 69,4
BARESA: Km 57,1
DAMAS : Km 45
MAI ATAL: Km 29,4
DOGALI: Km 19,6
MONCULLO: Km 7,7
CAMPO MARTE: Km 2,8
MASSAUA
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Già, proprio così. Un Italia che non se ne è mai andata dall’Eritrea ci mostra il meglio di ciò che siamo stati: una ferrovia che all’inizio del 1900 quando fu ultimata, era tra le più alte ed ardite del mondo.
Io sono qui, seduto, a quasi 2400 metri di altitudine e penso che in poco più di 117 Km questo gioiello italiano degli anni 30, mi avrebbe fatto arrivare ai 2100 metri di Arbaroba attraverso uno spettacolo di inaudita bellezza. Da questo posto magico si aveva l’impressione di viaggiare sopra le nuvole, vaporose e bianche che dalla costa dancala, per l’evaporazione del Mar Rosso, attraversano la valle del Ghinda salgono verso l’altopiano, sino a trasformarsi di sera o mattino presto in nebbia leggiadra e bellissima.
Guardo ancora stupito, pur essendo per me uno spettacolo conosciuto ma, quei valloni, quei precipizi, quei viadotti e quelle gallerie mi sgomentano ancora, mi attirano e mi fanno ammutolire.
Le montagne attorno sono cariche di fichi d’india che i nostri nonni portarono dalla Sicilia e che gli Eritrei chiamano “beles”, carichi di frutta di cui vanno ghiotti anche le mandrie di babbuini che qui vivono stanzialmente.
In mezzo ai fichi d’india possiamo ammirare anche le gigantesche “euoforbie candelabro” con le cime ricoperte di escrescenze rosse e gialle.
La mia mente vola e scende ancora più giù, dopo la stazioncina di Arbaroba in una discesa mozzafiato che si infila in una galleria e ci fa uscire nella valle del Nabaret, sovrastata dal massiccio del monte Bizen, alle cui falde attorniato da un panorama mozzafiato troviamo l’adorabile stazione di Nefasit.
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Se sei con me in questo viaggio, amico mio, vuol dire che anche tu sei nella storia che puoi raccontare ai nipoti per dire che “io ci sono stato”.
Superata Nefasit, dopo la valle del “Naberet”, la strada ferrata si affianca alla camionabile ed in questo tratto una volta potevamo ammirare la fila dei carrelli della più lunga teleferica del mondo, di ben 75 Km. con campate sino a 900 mt. sostenute da tralicci di 30 mt. Naturalmente è il pensiero che li vede perché non ci sono più carrelli, ne teleferica, ne tralicci. Fu considerata preda bellica dagli inglesi e quindi depredata, trafugata, distrutta. Esattamente come fecero con la ferrovia in Somalia.
Dopo poco raggiungiamo la fiorita stazione di “Embatkalla”, dove la primavera è eterna con alberi di pepe ed i loro grappoli di frutti rossi, palissandri con i fiori azzurri e bouganville, con l’aria limpida, e il sole che si fa gentile. Qui c’era un modernissimo sanatorio e rigogliose piantagioni di ortofrutta.
Continuiamo a scendere sino a raggiungere “Ghinda” a 990 mt. slm. Meravigliosa Ghinda con i suoi agrumeti, le carovane di dromedari che dal bassopiano orientale salgono verso l’altopiano. Possiamo fermarci a mangiare un panino con la frittata che viene cotta sulle pietre caldissime. Non c’è più il Buon Respiro ma ci sono locali dove si mangia discretamente e si può gustare un ottimo capretto alla brace.
Le grandi piogge del periodo estivo e le piccole del periodo invernale fanno di questa conca un paradiso, dove la frutta si può raccogliere più volte l’anno e gli ortaggi sono perenni.
La stazione qui ha una storia gloriosa, punto di scambio e di assistenza ferroviaria che parlano di anni del primo novecento e parlano di uomini d’altri tempi e parlano di un Italia principiante che sapeva fare le ferrovie più ardite al mondo.
Già siamo in maniche di camicia per il caldo che inizia a farsi sentire, mentre il treno continua la sua corsa passando sul fiume “Baresa” mentre, tutt’attorno tamerischi e sicomori si presentano in tutta la loro bellezza mentre si intravedono file di “babbuini” che qui trovano rifugio.
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Dopo una decina di chilometri da Ghinda arriviamo alla stazione di Baresa e ci troviamo a 600 metri s.l.m.
Il treno adesso può andare più veloce, mentre vediamo la vegetazione che si riduce a poche piante di spinose acacie ombrellifere, lungo torrenti in secca con lunghi filari di “Palma Dum”.
E’ la nostra Africa che abbiamo amato come pochi altri hanno saputo fare.
Raggiungiamo così la stazione di “Mai-Atal” dove in estate si superano anche i 50 gradi all’ombra, ricca di “Dick-Dick” che sono dei piccoli capretti selvatici, bellissimi.
Superata Mai Atal, oramai la camionabile viaggia al fianco della ferrovia e, dopo il torrente “Desset”, da dove arriva l’acqua che alimenta Massaua, arriviamo alla stazione di “Dogali”.
Sulla collina, alla nostra sinistra, possiamo vedere un obelisco in marmo a ricordo dei 500 militari Italiani sterminati da Ras Alula. Storia dimentica dai più anche da quelli che uscendo dalla stazione Termini di Roma si trovano davanti una stele su uno spiazzo chiamato “piazza dei cinquecento”. Vaglielo a spiegare a quelle talpe dei nostri onorevoli politici che cosa è stata Dogali.
Superata Dogali siamo in pianura, l’aria infuocata penetra dai finestrini aperti.
Tutto intorno è arido e infuocato perché ci troviamo a ridosso dei margini settentrionali della Dancalia. Siamo giunti alla stazione di “Moncullo” ( da OM – CULLO Madre di tutti) dove iniziamo a vedere delle capanne e, superato il villaggio di “Otumlo” da OTUM, nome di una pianta che cresceva rigogliosa nella zona, di cui erano ghiotti i cammelli, dopo un lungo rettilineo fiancheggiato dalle povere casupole di “Edago-Behai”, arriviamo in vista della stazione di Massaua.
Ci facciamo il tratto della lunga diga che unisce la parte della terraferma all’isola di “Taulud” che, a sua volta, da un altra diga è collegata all’isola di Massaua.
Il Mar Rosso ci circonda da entrambi i lati e possiamo vedere alla nostra destra la lunga costa di “Archico” e alla sinistra si intravede “l’Isola Verde”. Dalla penisola di “Gherar”, fanno bella mostra i cumuli di sale mentre sul mare i sambuchi sono pronti a partire per la pesca delle ostriche perlifere o delle trocas per la produzione dei bottoni.
La bella principessa addormentata, la nostra Massaua attende a braccia aperte.
Ad un certo punto mi sento scuotere e guardo trasecolato un meccanico della ferrovia che in un approssimativo italiano mi fa: “Signore, stavi dormendo o ti senti male? Sono due ore che stai seduto su questa panca. Dobbiamo chiudere”.
“ Chiedo scusa – faccio – forse stavo sognando di fare un viaggio verso Massaua”.
“ Capita – risponde – capita a molti di voi che ritornano qui”.
Esco dalla stazione dando per l’ultima volta uno sguardo alla targa con la frase di Orazio.
di Pasquale Santoro
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