Eri stupito, amico mio, volersi fermare su di un ponte in Africa non era il massimo delle tue aspirazioni .
Ma non potevi sapere che, per quante volte io sia passato sotto le sue imponenti arcate, non c’è ne stata una che non mi ha visto fermare, ammirare e meditare. Qui sentivo suoni di battaglie e di leggende ed ancora erano vivi i ricordi quando lungo le secche delle tue sponde lanciavo la mia voce perché venisse portata sino al mare. Vorrei dire al mio amico di andare , io voglio rimanere qui ad aspettare, qui dove sono conficcate le radici della mia vita.

Voglio fermarmi per onorare i nostri morti, giovani ragazzi italiani che qui furono trucidati.
Li vedo, in alto, sulla collina, i ragazzi italiani prima di rendere onore ai loro caduti, in riga come se fossero allineati, guardavano il nemico e guardavano al di là delle montagne e dei deserti che gli esploratori italiani avevano già bagnato con il proprio sangue. Non ci fu nessuna speranza. La morte sola, orribile come l’aspetto di quelle moltitudini turbinanti che si solleva da ogni parte e, armata di fucili e lance rapite in altre carneficine.
Sul drappello dei sodati in divisa bianca il silenzio si stende come una tenebra.
Li vedo morire. L’Italia lontana non sa nulla di quei momenti su quel colle arido e grigio dove non c’è che un immenso altare sul quale il sole africano chissà da quanti secoli attendeva questo olocausto.
I soldati vestiti di bianco sparano; non è una battaglia, è una tragedia. Il fumo delle scariche di fucileria che li avvolge passa sulle loro teste come una immensa bandiera attraverso la quale il cielo si accende.
Quello che attacca l’altura non è un esercito, non è un orda, ma una moltitudine in caccia, che deve compiere una strage. Avanzano carponi, per balzare poi come tigri, strisciando come serpenti dietro ogni asperità del terreno, per evitare il fuoco dei fucili italiani che si fa sempre più rado. Stanno circondando il colle e attendono che quei soldati vestiti di bianco abbiano terminato le munizioni per lanciarsi all’attacco. La certezza della vittoria centuplica la ferocia della loro attesa, guardando quel drappello ancora allineato, bianco, sul colle grigio, immobile sotto il sole e davanti alla morte.
Poi le munizioni finiscono, sono inermi e sperano ancora in un aiuto che non arriverà. L’Italia è troppo lontana, tanto da farle dimenticare i suoi figli morenti su un lembo di deserto africano.
Li sento gridare “Italia, Italia”, il loro ultimo gesto di sfida al nemico. Quel turbine nero li urtò e li coprì come una nuvola entro la quale non si distinse più nulla, nella quale l’ultimo gruppo che difendeva il Colonnello De Cristoforis udì ancora il suo ultimo comando di saluto a quelli che erano già morti: “Presentate le armi”.
Non bastava morire, perché la morte era inevitabile ma bisognava morire con l’impassibilità e l’orgoglio nel quale la morte non è più una sconfitta, ma un valore che provasse ai nemici quanto valesse un soldato d’Italia. Il loro colonnello, crivellato di ferite, nell’immenso turbinio dei guerrieri etiopi, riassume morendo, tutto il loro orgoglio, per gettare loro un saluto che nessuno di quell’orda avrebbe mai compreso.
“Presentate le armi” e gli ultimi feriti, forse poveri contadini dell’Abruzzo o della Sicilia, lo compresero e presentarono le armi ai loro morti, offrendosi inermi alle orde etiopiche che fecero strazio dei loro corpi.
Li vedo, li su quella collina di Dogali, in tombe segnate da pietre, dove giacciono da quasi 140 anni , cinquecento giovani italiani.
Si, mi devo fermare per rendere loro onore, camminando lungo quel ponte del riscatto italiano in terra d’Africa.
Lascio agli altri dibattere se fu un bene o un male. Lascio agli altri il compito di insultarci come invasori che meritarono questo per difendere quel lembo di terra da razzie e schiavitù. Non concedo agli altri però, nessuna possibilità di violare il silenzio di quelle tombe.
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di Pasquale Santoro
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