26 gennaio 1887. Nel massacro di Dogali l’indeterminatezza dell’Italia di ieri e di oggi

24 gennaio 1887: “non attaccare tanta importanza a quattro predoni che possiamo avere fra i piedi in Africa” rispondeva il Ministro degli Esteri Di Robilant ad un’interpellanza dell’opposizione sulla situazione in Africa.
Due giorni dopo, il 26 gennaio, alla confluenza del rio Dogali col torrente Desset la colonna del Tenente Colonnello De Cristoforis fu totalmente annientata e massacrata da 10.000 abissini (alcune fonti dicono a 5.000) al comando di Ras Alula a dispetto del sagace intervento del ministro italiano.

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Ras Alula

Il primo a giungere sul campo di battaglia fu il Capitano Tanturi in seguito alla richiesta di soccorso fatta da De Cristoforis: “Tutti denudati, tutti supini orribilmente mutilati o feriti, giacevano in ordine come fossero allineati” scrisse nel suo asciutto rapporto assimilabile a il Campo dopo la strage delle Catilinarie di Sallustio: Nam fere quem quisque vivus pugnando locum ceperat, eum amissa anima corpore tegebat (Infatti quel luogo che ognuno da vivo aveva occupato lottando, ora, perduta la vita, lo ricopriva con il suo cadavere).
Nelle parole del poeta Alfredo Oriani: “Tutti giacevano allineati, morti, sulla grigia altura, dalla quale avevano resistito tre ore senza volgersi indietro. Erano vestiti di bianco, insanguinati. Il sole alto sull’argentea vallata dardeggiava impassibile infiammando i loro cadaveri col calore e col colore della vita, ma nessuna voce turbava il superbo silenzio della loro morte. La storia doveva trovarli là, allineati sulla soglia dell’Africa, nell’eroismo di un atteggiamento che il nemico stesso non aveva osato scomporre fuggendo dopo la strage; e così resteranno eternamente nella gloria della poesia”.
E ancora “Nei cinquecento di Dogali, l’immobilità della battaglia e della morte provavano una coscienza sollevata al di sopra della vita di una di quelle rivelazioni improvvise che la storia da nell’anima di un popolo. Si sentirono grandi e furono.
Il loro colonnello, crivellato di ferite, ravvolto nell’immenso turbine africano, riassunse morendo tutto il loro orgoglio per gettare loro un saluto che né Roma, né Achille, né Sigfried, né Orlando avrebbero compreso: ‘Presentate le armi!’ E gli ultimi feriti, forse poveri contadini degli Abruzzi o della Sicilia, lo compresero e presentarono le armi ai loro morti, offrendosi inermi agli ultimi colpi dei sacrificatori”.

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Tenente Colonello Tommaso De Cristoforis

E anche Gabriele D’Annunzio due anni dopo, scrivendo “Il Piacere” citò il sanguinoso disastro di Dogali quando il suo protagonista Andrea Sperelli si imbatté nei tumulti che si verificarono a Roma il 2 febbraio 1887 per la notizia della disfatta: “[…] Uscendo nel Corso, la carrozza fu costretta a procedere con lentezza perché tutta la via era ingombra di gente in tumulto. Dalla piazza di Montecitorio, dalla piazza Colonna venivano clamori e si propagavano come uno strepito di flutti, aumentavano, cadevano, risorgevano, misti agli squilli delle trombe militari. La sedizione ingrossava, nella sera cinerea e fredda; l’orrore della strage lontana faceva urlare la plebe; uomini in corsa, agitando gran fasci di fogli, fendevano la calca; emergeva distinto su i clamori il nome d’Africa.
– Per quattrocento bruti, morti brutalmente! – mormorò Andrea, ritirandosi dopo aver osservato allo sportello.
– Ma che dite? – esclamò la Ferentino.
Su l’angolo del palazzo Chigi il tumulto sembrava una zuffa. La carrozza fu costretta a fermarsi”.

A Roma venne dedicata la piazza antistante la stazione Termini, ancora oggi piazza dei Cinquecento, e nello stesso anno l’architetto Francesco Azzurri per commemorare i caduti realizzò un monumento utilizzando un obelisco egizio dell’epoca di Ramsete II rinvenuto pochi anni prima dall’archeologo Rodolfo Lanciani presso la chiesa di Santa Maria sopra Minerva. Nel 1925 fu spostato poco distante nei giardini presso le terme di Diocleziano, sul viale Luigi Einaudi, dove si trova ancora oggi.

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Roma. Piazza dei Cinquecento

Il grave è che l’infelice frase del nostro ministro era successiva all’indifferenza già mostrata dal governo di fronte all’eccidio della spedizione Porro in aprile, dinnanzi al silenzio dell’espulsione di Giacomo Naretti dalla corte del Negus e soprattutto all’inazione per il sequestro, a gennaio 1887, da parte sempre di Ras Alula del conte Salimbeni, del maggiore Piano e del tenente Savoiroux dimostrando l’incapacità diplomatica nel dirimere rilevanti questioni internazionali nel proteggere i propri cittadini all’estero.
L’Italia all’epoca era un po’ come un’adolescente e i politici che la reggevano non si sbilanciarono mai nel prendere impegni in fatto di politica estera rifiutando qualunque tipo di cooperazione internazionale per paura di affrontare guerre delle quali non erano in grado di valutare l’esito.
La politica di ieri, come quella di oggi, non aveva una visione del futuro e l’indeterminatezza dei propositi era aggravata dalle lotte tra i partiti ma soprattutto non dobbiamo dimenticare che quei governanti di allora erano gli avanzi del Risorgimento: cospiratori e combattenti.
Dogali fu il primo fatto d’armi della nuova Italia dalla breccia di Porta Pia e venne accusato in patria come un disastro militare di proporzioni gigantesche. Come reazione fu approntato un corpo di spedizione di 20.000 uomini al comando del Generale Di San Marzano.

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Francesco Crispi

Fu un corpo di spedizione senza precedenti fino ad allora, tant’è che Francesco Crispi, non ancora presidente del Consiglio, in un primo tempo pareva intendesse vendicare solamente il massacro di Dogali, come ce lo racconta Giuseppe Ardau nel 1939 in Francesco Crispi: “Nessuno, in un momento di panico e di smarrimento per la nazione sapeva trovare accenti incoraggianti, esortare alla resistenza. Solo Francesco Crispi giganteggiò e parve trovasse il tono necessario a ridare un po’ di calma agli animi eccitati e sgomenti”.
Crispi desiderava che la Nazione che scoprì l’America ma che non ebbe “la forza di imporvi il suo impero” potesse allora “costituendosi al suo interno, ricostituire anche la sua posizione presso gli altri popoli” e quindi estendere i propri confini facendo “sì che le altre potenze non occupino sole tutte le parti del mondo inesplorato”.
Crispi concepiva il progetto coloniale non con spirito da piccolo bottegaio volto al guadagno immediato, da borghese insomma, ma per i benefici futuri anche se indubbiamente con dei costi ma “l’Inghilterra – disse – dagli estremi mari del Nord, insino agli estremi limiti del Mediterraneo, ha stazioni navali. […] Avete mai udito domandare nel Parlamento inglese quello che costa alle finanze britanniche il possedimento di quelle stazioni?”
Era il 18 maggio 1888 alla Camera quando colui che poi divenne l’assertore del colonialismo italiano oltremare pronunciava queste parole e proseguiva “avete detto che essendo in Roma, noi dobbiamo inaugurare un mondo nuovo, un diritto nuovo, una nuova civiltà; ebbene, o signori, se questi sono i vostri desideri, dovete aiutare il governo, dargli i mezzi affinché nella sua missione possa riuscire”.
E ancora Crispi: “Prima del 1859 eravamo schiavi dei nostri tiranni, oggi siamo schiavi della nostra debolezza. Allora ci insultavano dicendo che l’Italia era un’espressione geografica, oggi ci insultano perché sanno che non possiamo fare la guerra. […] Vi sono uomini i quali a difendere il loro contegno, dicono saggezza la viltà, inconsideratezza l’audacia, imprudenza il coraggio. E vi sono tempi in cui il senso morale è così stravolto che si applaude al contegno di codesti uomini”.

di Alberto Alpozzi

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