A Roma poster del bando del 14 ottobre 1935 per l’abolizione della schiavitù in Etiopia insegna la storia alla giunta capitolina

Oggi nel 1935 il Regio Esercito ai comandi del Generale Emilio De Bono entrava vittorioso in Adua. Primo atto nella città etiope conquistata fu il BANDO DI SOPPRESSIONE DELLA SCHIAVITÙ’ (qui il testo integrale). Schiavitù già abolita in Somalia molto anni prima dal governo italiano.
E proprio negli scorsi giorni nella capitale sono comparsi, come 87 anni fa nella vie di Adua, grossi poster riproducenti il bando che mise fuori legge lo schiavismo perché “dove sventola la Bandiera d’Italia ivi è la libertà”. Ma questo “gli imbianchini della memoria” pare non lo ricordino.

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Ma lo sappiamo: in Italia per non essere tacciati di fascismo da una certa parte di gendarmi della memoria che si sono autoinvestiti di una presupposta superiorità morale dichiarandosi depositari della verità storica l’unico approccio allo studio del periodo coloniale concesso è quello che a senso unico e senza contraddittorio pone in luce solo ed esclusivamente gli aspetti negativi (che senz’altro ci furono) ignorando tutti quei valori e modelli positivi, che ci furono anch’essi, che caratterizzarono il fenomeno coloniale che permeò tutta l’Europa per quasi 100 anni.
Una iniziativa del Blocco Studentesco della capitale per denunciare la mozione della giunta comunale per “rimuovere e manomettere le targhe di quasi centoquaranta vie della città che portano nomi o riferimenti riconducibili all’esperienza coloniale italiana in Africa”. Iniziativa antistorica e sopratutto ideologica basata sulle opinioni di studiosi dichiaratamente di parte, i cui lavori non possono che risultare divisivi per loro stessa natura.
I ragazzi del Blocco non ci stanno a vedere mistificato il passato dell’Italia dai “benpensanti che ora ci intendono catechizzare sui crimini italiani – mentre, prosegue il comunicato – dovrebbero fare i conti anche con le cose grandi della nostra storia”.
Purtroppo infatti con una sorta di compiacimento perfino imbarazzante per una nazione matura, è stata presentata per anni un’immagine dell’Italia coloniale estranea non solo a chi la visse in prima persona, ma anche – vorrei dire soprattutto! – a quegli stessi popoli che dall’Italia vennero colonizzati e con i quali per decenni vivemmo a stretto contatto.
Chi tendenziosamente nasconde o minimizza le innumerevoli iniziative italiane volte a creare lavoro attraverso infrastrutturecanalizzazioniconcessioni agricole o leggi a tutela dei lavoratori indigeni parlando di guerra o eccidi, distorce volutamente la realtà dimostrando una lettura ideologica della storia.

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“Ci troviamo di fronte ad un atto stupido ed oppressivo della nostra memoria storica, che vuole appiattire una vasta ed articolata esperienza coloniale lunga decenni alla sola morale anti-italiana ed antifascista che vede nella nostra storia solo un sentiero di colpe”.
La Giunta capitolina infatti pare non sapere, o fa finta di non sapere, che intere generazioni di italiani si avvicendarono nelle colonie italiane di Eritrea (dal 1870), Somalia (dal 1889), Libia (dal 1912) e d’Etiopia (dal 1936) ma la damnatio memoriae di questi signori si basa esclusivamente sulla dissoluzione di quelle idee e di quei valori su cui si fondava la società dei primi del ‘900, che ha accomunato nell’ostracismo anche opere, uomini e azioni che hanno il solo torto di essersi trovati in un dato periodo storico.
“Noi abbiamo voluto attaccare sui muri un ricordo del passato che mette sotto un’altra luce ciò che questi paladini dell’ordine hanno bollato come crimini. Fu crimine abolire la schiavitù? – si legge nella nota del movimento romano – Fu un crimine l’estensione della cittadinanza italiana alla popolazione libica? Il bando che abbiamo affisso è un documento storico incontrovertibile che sancisce di diritto la fine della schiavitù in Africa orientale”. E non fu l’unico: pochi mesi dopo, al termine delle ostilità, anche Badoglio dovette provvedere ad emanare apposite leggi a Macallè.

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La guerra d’Etiopia, è il cavallo di battaglia di una visione storica ristretta, usato sempre come grimaldello politico-ideologico post 1968 che spesso sorvola su quanto il clima nazionale di quegli anni fosse euforico, al punto di produrre in Italia un effetto straordinario di coesione nazionale: molti esuli antifascisti tornarono in Italia e partirono volontari per quella stessa guerra voluta dal fascismo (Benedetto Croce e Luigi Albertini donarono alla Patria, per combattere il sanzionismo, le loro medagliette d’oro da parlamentari. La comunità ebraica di Roma alienò oggetti d’oro della Sinagoga principale per contribuire alla conquista fascista dell’Impero).
“Non ci vergogneremo mai di questo – conclude la nota – e il documento storico che abbiamo affisso resta da monito e testimonia la superiorità delle idee sulle beghe faziose di piccoli uomini. È la dimostrazione del loro complesso d’inferiorità e della loro incapacità politica di agire sul presente: sconfiggere le nuove forme di schiavismo e usura, di sfruttamento e caporalato, di precariato e lavoro nero, questo dovrebbe essere l’obiettivo di una giunta comunale che vuole lasciare il segno. Ma loro, al massimo, lasceranno uno sfregio”.
D’altronde chi non crea non può fare a meno di distruggere perché effettivamente è più facile rimuovere la targa di una via che riparare le buche nelle strade, combattere la criminalità e gestire le discariche della città.
Perché come diceva Umberto Eco “ci vuole sempre qualcuno da odiare per sentirsi giustificati nella propria miseria”.

di Alberto Alpozzi

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