
Il fenomeno migratorio, oggi più che mai, non rappresenta soltanto una delle questioni aperte e più scottanti dell’Italia contemporanea, ma, a differenza di tanti altri nostri colleghi del vecchio continente, assume qui connotazioni senz’altro emergenziali che vanno ben al di là di soluzioni estemporanee e ordinarie, richiedendo che il dramma venga affrontato con la dovuta energia.
L’attuale classe dirigente, a livello nazionale ma anche europeo, agitando lo spauracchio della solidarietà, impegna casse pubbliche, fondi e uomini delle forze armate e delle forze dell’ordine nella gestione ordinaria del fenomeno migratorio. L’emergenza permane tuttavia, nonostante gli accordi bilaterali, spesso non rispettati proprio dai Paesi di provenienza dei flussi, abbiano avuto come obiettivo la riduzione delle partenze.

Il controllo sui porti di imbarco non costituisce mancanza di solidarietà, ma è tutela degli Stati di destinazione e degli stessi migranti, troppo spesso prime vittime della locale criminalità che organizza viaggi di disperati attraverso il mare e le sue insidie. È necessario, a tal riguardo, agire sul nostro territorio per arginare il fenomeno, ma sarebbe comunque erroneo ritenere che questo possa essere tamponato senza un adeguato intervento nei Paesi di origine dei flussi.
Questa, alla luce dei primi accordi bilaterali tentati dai Governi, è idea che pare generalmente condivisa, ma la via attraverso la quale concretizzare tutto ciò non è certo altrettanto semplice da identificare. Le soluzioni potrebbero difatti essere molteplici, ma tutte comunque coerenti con il principio di fondo che l’invasione migratoria non si affronta soltanto a casa di chi ospita, ma occorre anticipare l’intervento sin dalle partenze. Concetto peraltro tanto noto, quanto uniformemente condiviso, secondo la massima del «se vuoi aiutare un povero, non regalargli un pesce: insegnagli a pescare» che già ai tempi del confucianesimo trovava piena cittadinanza nel comune sentire.

Limitando, ad esempio, il discorso al continente africano, i dati estratti dal Rapporto sullo sviluppo umano (1997) dell’UNDP – Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo e dalla Banca Mondiale (World Development Indicators, 1998), dimostrano inequivocabilmente come il reddito pro-capite di alcuni Stati (fra i quali spiccano la Nigeria, il Ghana, l’Etiopia) si sia ridotto, se non dimezzato, fra il 1960 (anno storico dell’ottenimento dell’indipendenza per gran parte dei Paesi africani colonizzati dalle Nazioni europee) e il 1996.
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Questi dati potrebbero avere mille cause e mille interpretazioni, ma resta comunque oggettivamente innegabile che l’ottenimento dell’indipendenza, di per sé, non è sinonimo di ottenimento del benessere: si pensi difatti al caso Somalia, all’Albania, all’Etiopia.

Da questo prende le mosse l’idea, avanzata da diversi intellettuali a livello puramente teorico, inerente una sorta di ritorno al fenomeno coloniale, privo tuttavia dell’aspetto invasivo: sarebbero indispensabili, in buona sostanza, un limite temporale e il consenso dello Stato destinatario dell’intervento o, quanto meno, il mandato diretto delle Nazioni Unite. Una sorta di protettorato rafforzato o di amministrazione fiduciaria sulle mosse di quella italiana sulla Somalia, tra il 1950 e il 1960.

Potrà essere una linea d’intervento condivisa o meno, ma è parimenti innegabile che appare non più procrastinabile l’esigenza di intervenire in loco, perché altrimenti, agendo pur con tutto il rigore possibile solo sul nostro territorio, rischiamo l’anestetizzazione del problema, le sue conseguenze, i sintomi della patologia, mentre le reali cause del fenomeno migratorio resteranno, inalterate, quelle di sempre.
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di © Fabrizio Primoli – Tutti i diritti riservati