Come si faceva ad emigrare nelle colonie italiane

Lasciapassare speciale per le colonie. Collezione O. Nobili

Secondo il Regio Decreto 17 Novembre 1928 n. 3278 per recarsi nelle Colonie italiane in Africa Orientale era necessario un lasciapassare. Tale documento, con due fotografie, andava richiesto, nel Regno, alle Prefetture; nelle colonie, ai Governi, e per i cittadini italiani residenti all’estero, alle Regie Autorità diplomatiche e consolari. Si pagava una tassa di L. 51. Il lasciapassare aveva una validità di un anno.
Le norme per il suo rilascio erano in genere quelle vigenti per i passaporti per l’estero. Il passaporto per l’estero era valido come lasciapassare per le Colonie qualora vi fosse apposto un visto da una delle autorità competenti (Prefettura, Governo, Ambasciate).
Il Ministero delle Colonie rilasciava gratuitamente un lasciapassare collettivo per partecipanti a crociere turistiche e ai membri di commissioni scientifiche autorizzate.
I funzionari coloniali, gli ufficiali e i sottufficiali, dovevano essere muniti o del passaporto di servizio oppure di uno speciale lasciapassare gratuito ministeriale.
Anche i cittadini o sudditi italiani residenti in Colonia che volevano recarsi in Italia dovevano richiedere, o far vistare, il lasciapassare. Moglie, figli, personale di servizio o comunque a carico, potevano essere registrate sullo stesso lasciapassare del capo famiglia.

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Non si poteva andare in colonia a cercar fortuna. Anzi “chi va in Colonia per cimentare la propria attività nella industria agraria, come in qualsiasi altra, deve essere provvisto di mezzi pecuniari adeguati: nulla è più pericoloso per un Governo seguire la politica diretta ad una colonizzazione di Stato, nulla è meno propizio per una fortuna economica dell’agricoltore che una mancanza di mezzi2.
Sottolineava nel 1933 il senatore prof. Emanuele De Cillis, all’inaugurazione del IX Corso di coltura coloniale indetto dalla «Società africana d’Italia»: “Il colono si fissa alla terra e la redime all’agricoltura solo quando ne gode il possesso immediato o lo spera nel futuro o quando, oltre al lavoro, vi ha impiegato il proprio denaro o quando nel suo lavoro è stimolato dall’alea che, in misura maggiore o minore, accompagna ogni impresa lucrativa; senza queste condizioni non vi sarà mai colonizzazione; la storia coloniale di tutti i popoli insegna che la colonizzazione affidata dai Governi ai nullatenenti è sempre ed in ogni luogo fallita.
Lo Stato deve quindi soccorrere con tre mezzi: concedere la terra a poco prezzo ed a pagamento dilazionato; contribuire alle spese di impianto delle aziende; offrire un largo credito a condizioni possibili”.
Questo anche perché per l’Italia fascista le colonie non erano regioni da sfruttare, ma nuovi territori nei quali investire e per – secondo l’idea positiva dell’epoca – “avvalorare il Continente Africano che rimarrà saldamente legato, da vincoli politici, demografici ed economici, al complesso unitario e concorde della Nuova Europa”3, infatti le colonie italiane erano le più ricche di capitali investiti in tutta l’Africa.
Proprio come già nel 1924, sosteneva Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon, per la colonizzazione agricola della Somalia. Durante il suo governatorato (1923-1928) investì molto nella bonifica della zona di Genale dove vennero create le concessioni agricole governative.
Testimonianza diretta, è data da Dante Saccani, concessionario agricole, nel romanzo autobiografico “I prigionieri del sole”, quando narra il suo primo giorno in colonia e l’incontro con il Governatore per ricevere in affidamento una concessione.
“Lì davanti, aperta sul tavolo c’è la sua domanda, piena di allegati, di bolli, di annotazioni.
– Lei è X.
– Eccellenza, sì.
– E vorrebbe una concessione.
– Ecco… io… signorsì.
– Va bene, va bene. – E con parole cortesi, non senza quel tono di pacata severità che lo distingue, il governatore espone in un quadro rapido e chiaro l’intrapresa, i sacrifici, i mezzi, le qualità necessarie al compimento.
– Lei mi ha dimostrato di possedere questi mezzi e queste qualità. Spero che sappia anche affrontare e superare i sacrifici. Ad ogni modo non si illuda e non si scoraggi. Buongiorno.”

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Gli operai che desideravano andare a lavorare nelle Colonie dovevano presentare domanda di assunzione agli uffici di collocamento presso i Consigli provinciali dell’Economia corporativa, i quali, a loro volta, la avrebbero trasmessa istruita “al Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna, incaricato del reclutamento degli operai occorrenti ai governi coloniali, alle imprese appaltatrici di lavori in Africa Orientale”4.
Infatti nessun trasferimento di prestatori d’opera per l’Africa Orientale Italiana poteva “effettuarsi senza la preventiva autorizzazione del Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione”5. Stessa prassi valeva anche per la Libia, dove il Ministero dell’Africa italiana aveva promulgato delle apposite leggi per disciplinare le migrazioni: la legge del 9 aprile 1931 n° 358 “Norme per la disciplina e lo sviluppo delle migrazioni e della colonizzazione interna”.

I datori di lavoro, fossero enti pubblici o privati, che intendevano trasferire in AOI, alle loro dipendenze, lavoratori residenti nel Regno, dovevano presentare domanda al Governo nel cui territorio i lavoratori stessi sarebbero andati a svolgere la loro attività.
“Il lasciapassare per operai nazionali è concesso soltanto su richiesta di ditte stabilite in AOI o che abbiano autorizzazione a stabilirvisi, e che dichiarino di assumere gli operai alla propria dipendenza”6.
Tali datori di lavori, a loro volta, doveva essere regolarmente autorizzati a svolgere attività economiche nell’Africa Orientale.
Inoltre veniva sempre analizzata la possibilità di impiego in Colonia, tenendo presente le condizioni del mercato del lavoro nella Colonia stessa. Infatti vi era il criterio di regolare l’afflusso della mano d’opera d’oltremare in modo tale che non sorgesse il fenomeno della disoccupazione fra gli operai nazionali.
Tutti i documenti venivano sempre passati al vaglio dal Commissariato per le migrazioni e dei prefetti delle province prescelte, nel caso di operai non indicati nominalmente dalle imprese, che si rivolgevano agli Uffici di collocamento per far approntare dalla Questura il lasciapassare.
I lasciapassare quindi tornavano dai Prefetti al Commissariato per le migrazioni insieme a tutti i documenti necessari per stabilire se i lavoratori fossero in possesso dei requisiti: buona condotta morale e politica, fisicamente e professionalmente idonei, vaccinazioni e che avessero raggiunto e non superato il massimo di età.
Solo una volta verificati tutti i requisiti e riconosciuto che si trattasse di lavoratori necessari e richiesti il Commissariato per le migrazioni apponeva il suo visto sui singoli lasciapassare per le Colonie.

di Alberto Alpozzi

NOTE
1. Il Vademecum per l’Africa Orientale edito da Bompiani nel 1936 indica L. 5, mentre la Guida dell’Africa Orientale Italiana edita dalla CTI nel 1938, indica L. 4
2. I nullatenenti e le colonie, da “L’Italia Coloniale” Anno X, n. 2, Febbraio 1933
3. Amedeo Fani, Presidente dell’Istituto Fascista dell’Africa Italiana, in Vademecun Africano, Vol. 1, Roma, 1942
4. Vademecum per l’Africa Orientale, Bompiani, Milano 1936
5. R. Basile-Giannini, G.E. Pistolese, a cura di ,Codice del Lavoro dell’Africa Italiana, Ministero dell’Africa Italiana – Ufficio Studi Roma, 1938
6. Guida dell’Africa Orientale Italiana, Consociazione Turistica Italiana, Milano, 1938

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