La Somalia italiana fu “una colonia modello”. Il governatorato del Quadrumviro de Vecchi mai raccontato

Checché se ne sia detto in patria negli anni e se ne scriva a tutt’oggi la storia e gli storici stranieri hanno ampiamente dato ragione al primo governatore fascista della Somalia (1923-1928) Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon. Prendiamo per esempio Anthony Mockler ne “Il mito dell’Impero” (Rizzoli, Milano, 1977). A proposito dei cinque anni di governo del primo governatore fascista della Somalia scrive: “de Vecchi deve essere stato più intelligente e più abile di quanto si pensava poiché per la fine del suo mandato aveva raggiunto tutti i suoi obiettivi […] Quando il de Vecchi se ne andò, poco prima della firma del trattato di amicizia con l’Etiopia nel 1928, lasciò dietro di sé una colonia modello. Era stato particolarmente abile a ristrutturare le forze armate sia quelle regolari che quelle irregolari”. Si! Lo ha scritto davvero: una colonia modello. Mockler, che ha studiato a Cambridge e insegnato alla Sorbona.

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Obbia, 14 maggio 1924. Il Governatore de Vecchi a colloquio con il Sultano Alì Jusuf

Infatti il de Vecchi non solo aveva creato la Somalia, quale oggi conosciamo, ma l’aveva totalmente pacificata. E al contrario di quanto storici ideologizzati continuano a sostenere non impiegò solamente la forza per completare il ritiro della armi presso quei clan che rendevano insicura l’intera regione, ma anche e soprattutto ci riuscì attraverso una accorta penetrazione politica tra le genti, se no come si potrebbero spiegare le bande Dubat, create attraverso l’arruolamento e addestramento di somali, che combatterono – stipendiate – per il governatore?
Molte furono le trattative per evitare quanto più possibile l’uso delle azioni di forza, perché come disse l’inglese Burke nel 1775: “l’uso della forza non ha che un effetto temporaneo. Può soggiogare per un po’, ma non toglie la necessità di soggiogare di nuovo: e non si può governare una nazione che deve essere sempre riconquistata”. Prima di lui Quinto Fabio Massimo disse che “vincere un popolo non significa soggiogarlo”.
La Somalia, infatti dal 1927 al 1941, in seguito all’opera del de Vecchi, è innegabile, conobbe un periodo senza precedenti di pace e prosperità senza lotte e guerre interne. Evento senza precedenti.
A riprova di quanto realizzò, nel 1928 anno del suo definitivo rientro in Italia, poté ospitare in colonia il Principe di Piemonte Umberto di Savoia. L’erede al trono rimase in Somalia un mese intero: dal 28 febbraio al 23 marzo, visitando l’intera colonia dal sud al nord nei territori dei sultanati da poco conquistati e pacificati, osservando i nuovi territori direttamente sui campi di battaglia.

Valle del Darror, 23 marzo 1928. L’autocarro scoperto con a bordo il Principe Umberto (foto archivio Laurenzi)

Per esempio il 23 marzo, da Bender Cassim il Principe Umberto salì su di un autocarro, totalmente scoperto, col Governatore per inaugurare la nuova strada che correva parallela al confine del Somaliland percorrendola per oltre settanta chilometri fino alla valle del Darror, dove si soffermò ad ammirare il paesaggio in tutta sicurezza e senza alcuna scorta, a riprova del successo ottenuto dalle operazioni di pacificazione. Provate oggi a percorrere la medesima strada.
Nella sua opera il Governatore fu affiancato dall’allora maggiore Camillo Bechis, organizzatore e animatore delle bande Dubat che, seguendo la via del rigore e della forza, intensificò l’azione militare applicando la guerriglia tipica della zona: la razzia, unica legge che veniva compresa.
Le anime belle, ora, non devono indignarsi nel leggere la parola “razzia” e il perché ce lo spiega Ioan M. Lewis, nel suo “Una democrazia pastorale” (Franco Angeli, Milano, 1983): “la supremazia politica non è conferita o simbolizzata da legami mistici con la terra, ma scaturisce dalla superiorità del potenziale di combattimento. Nella visione politica dei lignaggi somali, quello della legittimità del ricorso alla forza è un assunto indiscutibile: «la ragione è del più forte» e i diritti della persona, del bestiame, di accesso ai pascoli e all’acqua, anche se non sempre ottenuti con la forza, possono difendersi dall’usurpazione solo con la forza delle armi”. E chi meglio di Lewis, che visse e studiò per decenni i somali, può spiegarci le loro tradizioni?

Bargal. Il maggiore Camillo Bechis (al centro con il cappello Alpino) a colloquio con i capi cabila arresi. Il quarto da sinistra è il fratello del Sultano Osman Mahamud

Lewis fu professore emerito della London School of Economics, il più giovane professore della Gran Britannia ed è riconosciuto a livello internazionale come il principale studioso di storia e cultura somala.
Il fattore descritto dall’antropologo nel 1961 era già ben chiaro al de Vecchi quasi quarant’anni prima. Infatti riteneva che “uno stato che escluda la forza per la affermazione della propria superiore personalità, per la propria conservazione o per lo sviluppo proprio o dei principii sui quali si fonda, o non può esistere o è destinato a morire”.
Questa analisi, poco nota del de Vecchi, appare pubblicata nel suo “Politica sociale verso gli indigeni e modi di collaborazione con essi” (Tipografia Rodia, Rodi, 1938), testo stranamente mai preso in esame o citato dagli storici “esperti” di colonialismo.
I testo del de Vecchi continua con altre interessanti considerazioni: “Ogni antinomia fra Stato e individuo o gruppo di individui, fra particolare e universale è superata dalla sicurezza, dalla sensazione tattile di una comune giustizia di Stato che tiene conto di tutte le esigenze di tutte le aspirazioni. Questo è il perfetto Stato coloniale, cioè il perfetto Stato imperiale, nel quale vengono a trovarsi senza sforzo alcuno individui e popoli diversi in una comune patria. Nello Stato ciascuno si riconosce come in un tutto del quale il suo particolare di individuo o di popolo è parte essenziale”.

Eil, 1927. Il Governatore de Vecchi con i capi Omar Mahamud

Ma soprattutto, e potremmo fare un interessante parallelismo con l’attualità: “rimane fermo più che mai che per governare gli uomini bisogna conoscerli. La politica imperiale era, è, e rimane innanzi tutto l’arte di far aderire all’ambiente etnico, ai costumi, alle tradizioni, alle religioni i nostri principii di governo e le nostre finalità politiche in modo che tutti i sudditi riconoscano lo Stato come cosa loro”. Non c’è che dire, il Quadrunviro fascista era davvero un razzista…
È solo di questa mattina una interessante e simile dichiarazione del presidente Russo Vladimir Puntin: “il termine “popolo sovietico” non era male. Univa tutto il paese. Viviamo in condizioni diverse. Il popolo russo adesso è la base di tutta la nostra Russia multietnica. E in questo senso, naturalmente, l’uomo russo e il popolo russo sono interessati a preservare il paese. Ma per preservare la Russia, che è multietnica e multiconfessionale, è necessario che il rappresentante di ogni etnia senta che questa è la sua patria e che non è possibile ce ne siano altre!”.
In ogni caso sia mai che la “Politica sociale verso gli indigeni e modi di collaborazione con essi” di Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon stampato dalla Tipografia Rodia nel 1938 nell’isola di Rodi, venga condiviso e conosciuto, d’altronde non corrisponde alla narrazione che fino ad oggi hanno reso di quegli anni.

di Alberto Alpozzi
Il testo dell’articolo è una rielaborazione di alcuni contenuti del libro “Dubat – Gli Arditi somali all’alba dell’Impero fascista” di Alberto Alpozzi, prefazione Mario Mori, Eclettica Edizioni

Mogadiscio, 1927 Il Governatore de Vecchi decora personalmente un capo cabila con le insegne dell’Ordine Coloniale della Stella d’Italia

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IL LIBRO “DUBAT”:
I dubat, bande armate di confine, furono un corpo militare coloniale d’élite formato dai migliori uomini dei clan somali di tradizione guerriera. Ammirati e temuti per le loro imprese al fianco dell’Italia segnarono la storia della Somalia. Vennero istituiti nel 1924 dal Quadrumviro Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon, governatore della Somalia italiana, per proteggere gli incerti confini dalle razzie abissine e per sequestrare le armi da fuoco che rendevano instabili e insicuri i protettorati nel nord. Comandati e organizzati dal maggiore degli Alpini Camillo Bechis i dubat fronteggiarono i clan riottosi in epiche battaglie che assunsero tutti i caratteri di una vera e propria guerra coloniale, supportata in alcune fasi da una divisione navale e una squadriglia aerea. Il testo ripercorre i combattimenti e le azioni dei dubat narrando l’epopea che portò per la prima volta alla pace e all’unificazione di genti e territori conosciuti oggi come Somalia, un tempo divisi tra clan rivali in costante lotta per la supremazia. Attraverso la voce dei protagonisti ci ritroviamo a vivere nella più lontana colonia italiana seguendo in diretta le operazioni militari. A parlare sono i telegrammi, le relazioni militari e ministeriali, i diari personali, le lettere private e i giornalisti dell’epoca. Centinaia di immagini fotografiche inedite completano il quadro storico minuziosamente ricostruito giorno per giorno. L’analisi dei documenti d’archivio ha portato alla luce trattati coloniali e convenzioni internazionali che non solo hanno ricomposto il contesto socioculturale nel quale maturarono gli eventi ma hanno anche svelato intrighi e traditori, i cui nomi, dopo quasi cento anni possono essere resi noti. Nel libro vengono forniti strumenti e tracce per un’analisi storica della politica coloniale italiana in Somalia e degli obiettivi imperiali nei primi anni del fascismo.

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14 thoughts on “La Somalia italiana fu “una colonia modello”. Il governatorato del Quadrumviro de Vecchi mai raccontato

  1. Grazie Alberto per questo sprazzo di verità su una figura assai vilipesa(ingiustamente) dalla storiografia.
    Al netto degli errori eventualmente commessi in buona fede, è una figura sconosciuta ai più, le cui traversie , purtroppo affondano già in epoca fascista, per i contrasti accesi talvolta con Mussolini e il suo entourage.
    Comunque mi aspetto il linciaggio mediatico in tempi brevissimi.

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