Cos’è una colonia e perché la colonizzazione non è mai finita

Per gli italiani, dalla Treccanicolònia: 1. Presso gli antichi, gruppo di cittadini di uno stato che per decreto pubblico o di propria spontanea volontà si stabilivano in un paese lontano, per abitarlo, coltivarlo, incivilirlo, acquisirlo agli ordinamenti e ai costumi della madrepatria, con la quale conservavano legami spirituali, giuridici ed economici; 2.In età moderna, possedimento di uno stato, di solito situato in territorio lontano (spesso transmarino) e abitato da popolazioni indigene per lo più economicamente sottosviluppate, le quali non godono degli stessi diritti civili dei gruppi etnici provenienti dallo stato dominante; 3. Insieme di persone che (per cause soprattutto di lavoro) si stabiliscono in un paese straniero o in una regione o città diversa da quelle di origine.
Per gli inglesi, dal Collinscolony: 1. A colony is a country which is controlled by a more powerful country; 2. The colonies means all the countries that used to be British colonies; 3. The colonies means the 13 British colonies in North America which formed the original United States.
Per i francesi, dalla Laroussecolonie: 1. Territoire occupé et administré par une nation en dehors de ses frontières, et demeurant attaché à la métropole par des liens politiques et économiques étroits; 2. Groupe de personnes quittant leur pays pour aller en peupler un autre.
Già dai dizionari si può capire molto di un popolo, della sua cultura e della sua storia.
Nella lingua inglese e francese, a differenza dell’italiano, per definire e descrivere una “colonia” non compare mai il concetto di vivere o abitare in una colonia coltivandola, farla progredire, assimilarla alla madrepatria e soprattutto non vi sono accenni all’antichità ma solo definizioni derivanti dalla storia recente.

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Il vocabolo colonia deriva dal verbo latino colere (colo), cioè coltivare, da cui colonus (colono) cioè l’uomo libero che nel tardo impero romano e nel medioevo era vincolato per tutta la vita al lavoro del terreno assegnatogli.
Ma il verbo latino colere non significa soltanto coltivare, ma anche abitare, o meglio “abitare per coltivare”. Significa ancora aver cura, dirozzare – terres hominumque genus scriveva Virgilio – incivilire, rendere felici (felix), migliorare spiritualmente e materialmente.
Ne consegue che l’Italia, a partire dal suo dizionario e finendo con la sua storia, abbia preso nel loro complesso tutti questi significati e li abbia messi in pratica, o meglio, romanamente (seguendo la tradizione romana) il colonialismo italiano si è mosso in quella direzione, da cui deriva la chiara ed inequivocabile definizione della Treccani. Così come sono chiare ed inequivocabili quali che siano state le intenzioni inglesi e francesi nei riguardi dei loro territori coloniali. Le definizioni del Collins e della Larousse ne sono perfetto specchio storico-culturale.
Ma come si definisce un territorio “colonia”? Per definirsi tale, una colonia doveva reggersi su due elementi precisi: l’espansione e la colonizzazione.
L’espansione coloniale era simultaneamente determinata da: 1) una forza demografica; 2) una forza economica; 3) una forza politica; 4) una forza spirituale.
Da qui le quattro finalità che l’espansione coloniale italiana si prefiggeva e che lo Stato cercava di raggiungere tramite l’espansione: 1) dare uno sfogo all’espansione demografica che non trovava risorse sufficienti nella madrepatria; 2) valorizzare terre nuove, trovare materie prime e ricercare nuovi mercati di sbocco per i prodotti e per i capitali in eccesso; 4) diffondere la civiltà e attuare quindi un’opera di solidarietà umana.
La colonizzazione, successiva all’espansione, è la fase costruttiva indirizzata al raggiungimento del miglioramento materiale e morale della società umana.
Infatti la colonizzazione, se inizialmente era un mero sfruttamento materiale, in un secondo momento non poteva più concepirsi con il gretto spirito mercantilistico. Questo non significa che la colonizzazione si trasformò in un’utopica opera di totale altruismo ad esclusivo favore delle popolazioni abitanti le zone di espansione.
Però la “nuova” colonizzazione doveva svolgersi nell’interesse e nel profitto di tutta la società umana. Il progresso teorizzato dal positivismo di Augste Comte.
Per comprendere oggi come il fenomeno coloniale, nelle sue due fasi, lo si attuasse all’epoca nell’interesse di tutta la società, basta pensare al doppio grave pericolo che sovrasta su di questa, quando le forze sprigionantisi da un popolo non venivano convogliate verso determinati sbocchi naturali o regolamentati, ma surcompresse; mentre al tempo stesso le energie latenti non guidate e non tutelate, di altri popoli viventi su vasti territori inutilizzati, mantenessero larghe zone di disordine in seno alla società stessa.

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Il fenomeno coloniale, sin dagli albori della sua storia, si credeva fosse l’unica soluzione possibile e realizzabile che la società avesse per sventare quel doppio pericolo. Essa era dunque, in sostanza elemento essenziale alla vita della società umana dell’epoca, e soprattutto giuridicamente legittimo. Ma se ci pensiamo attentamente, cambiato di nome, è esattamente uguale alle attuali “missioni di pace” o “guerre preventive” sotto egida NATO: i paesi più potenti intervengono militarmente in altre nazioni per “esportare la democrazia” (?) e stabilizzare situazioni che potrebbero ripercuotersi negativamente sugli assetti geopolitici e finanziari dei paesi stessi che sono scesi in campo.
Basta analizzare anche l‘art. 11 della “costituzione più bella del mondo”. Così recita: “L’Italia ripudia – non nega che è ben diverso – la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Di solito si cita, deliberatamente per falsarne il significato, solamente questo passo, ma l’art. 11 non termina e prosegue dicendo: “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” ecco, esattamente il compito del quale si erano investite lo scorso secolo le nazione coloniali. Termina con “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”, cioè l’Onu e la Nato.
La questione sulla legittimità giuridica di colonizzare altri paesi è stata argomento di dibattiti per lungo tempo. Alcuni ieri (come oggi) sostengono che fra i diritti fondamentali di ogni popolo, vi sia quello di pretendere un assoluto rispetto alla propria indipendenza. Altri, ieri (come oggi) sostengono che qualunque intervento sia legittimo e lecito quando si tratti di far rispettare le leggi d’umanità (“la pace e la giustizia fra le Nazioni”?), oggi li chiamiamo diritti dell’uomo, e poiché – all’epoca – le popolazioni considerate barbare o comunque incivili o arretrate non rispettavano tali leggi (vedi lo schiavismo nell’Impero d’Etiopia), l’espansione coloniale si risolveva, in definitiva, ieri (come oggi) – incredibile dictu – in un intervento anche (spesso) armato per garantire il rispetto di quelle leggi (“limitazioni di sovranità necessarie”?). Dunque la colonizzazione era legittimata. Oggi ha cambiato nome in ONU, i cui obiettivi (e alibi) restano esattamente gli stessi.
La Repubblica Italiana sulla base di una consuetudine di diritto internazionale può quindi oggi partecipare a missioni armate per la pace per imporre la tutela dei diritti umani, nonché con lo scopo di difendere valori ritenuti universali.

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In poche parole il colonialismo ha solo cambiato nome. E ieri (come oggi) ogni comunità o individuo nell’esercizio dei suoi diritti è obbligato a tener conto, degli interessi superiori dello Stato stesso o della comunità cui appartiene comportandosi in conformità a tali interessi, dove agendo diversamente provocherebbe l’immediato intervento legittimo (pene detentive, etc) dello Stato; così in seno alla società umana, si ritiene (o si vuole) che ogni popolo che disponga di un territorio e delle sue ricchezze naturali sia tenuto ad agire in conformità agli interessi superiori della collettività, sia valorizzando il territorio sia sfruttandone le ricchezze, sia cercando di progredire materialmente e moralmente per poter collaborare all’evoluzione della società umana.
“Si voleva davvero realizzare un nuoto tipo di colonialismo, più “positivo” ed ispirato a criteri umanitari e razionali […] Ora si pensava a rendere produttive quelle terre costruendo strade, porti e organizzando traffici. […] L’importante e nuovo concetto contenuto nei mandati della Lega delle Nazioni consisteva nel fatto che ora le nazioni avevano l’obbligo, non solo di governare con giustizia ma anche di far progredire i popoli colonizzati sia dal punto di vista economico sia di quello politico. La teoria era stata elaborata dal più grande amministratore inglese dell’Africa, Lord Lugard, nel suo Dual Mandate in British Tropical Africa, e insieme dal ministro francese delle Colonie, Albert Sarraut nel suo Mise en valeur des colonies françaises1.
Dove l’uomo o un Stato agissero diversamente, essi avrebbero provocato quindi un legittimo intervento, in territori colonizzati o da colonizzare. Ieri. Oggi in stati sovrani.
Le finalità dell’ONU sono: assicurare la pace e la sicurezza tra le nazioni, assicurare il rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della democrazia e aiutare lo sviluppo economico, sociale e culturale dei Paesi più poveri, tramite agenzie specializzate in diversi settori.
Uguale a tutto quanto rendeva legittimo il colonialismo. Ieri avveniva secondo l’art. 22 del Patto della Società della Nazioni nel quale “si affermava che il benessere e lo sviluppo dei popoli non ancora in grado di sorreggersi da soli nelle ardue condizioni del mondo moderno costituivano una sacra responsabilità della civiltà che era opportuno affidare ai paesi avanzati”2. Inoltre l’art. 119 del Trattato di Versailles legittimava l’intervento di terzi Stati contro uno stato colonizzatore che non avesse adempiuto agli obblighi derivanti dalla sua espansione.
Da qui il principio che parificava le diverse forme di acquisti coloniali agli effetti di responsabilità degli Stati. Tale principio era già espresso chiaramente nell’art. 10 della Convenzione di Sain-Germain del 1919: “Les Puissances signataires reconnaissent l’obligation de maintenir, dans le régions relevantes de leur autorité, l’existence d’un pouvoir et des moyens de police suffisants pour assurer la protection des personnes et des biens”3.
Oggi tutto questo avviene ancora esattamente uguale attraverso le Risoluzioni delle Nazioni Unite, emesse dal Consiglio di Sicurezza o dall’Assemblea Generale. Tutto costituzionalmente perfetto per la Repubblica Italiana, ex stato colonizzatore e imperialista.
Aveva ragione Tancredi ne “Il Gattopardo”: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

di Alberto Alpozzi

NOTE
1. Alpozzi A., Dubat – Gli Arditi somali all’alba dell’Impero fascista, Eclettica Edizioni, Massa, 2020
2. Ibidem
3. “Le Potenze firmatarie riconoscono l’obbligo di mantenere, nelle regioni sotto la loro autorità, l’esistenza di poteri e di mezzi di polizia sufficienti a garantire la protezione delle persone e dei beni”. Il testo del trattato venne redatto in lingua francese, inglese e italiana, ma non in lingua tedesca. Venne espressamente precisato che, in caso di contestazioni, faceva fede il testo in lingua francese

FONTI
1. Borsi U., Principi di diritto coloniale, Cedam, Padova,1938
2. Ghersi E., Diritto coloniale, Cetim, Milano, 1942
3. Mondaini G., La legislazione coloniale italiana nel sul sviluppo storico e nel suo stato attuale (1881-1940), Ispi, Milano, 1941

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