La ricchezza dell’Impero inglese tra violenze, saccheggi e schiavitù. Non tutti piangono la regina

La morte della regina Elisabetta ha suscitato cordoglio e commozione in gran parte del mondo. Ma prescindendo dall’idea romantica e più gettonata dei canali occidentali la monarchia inglese in molti paesi rappresenta violenza, schiavitù e repressione. La storica Caroline Elkins, cattedra ad Harvard in Studi Afroamericani, ha ricordato infatti che “tutti gli imperi sono stati violenti, e l’impero britannico non ha fatto eccezione”.

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Impero britannico nel 1920

Il dominio coloniale inglese si è basato sull’assoggettamento con la forza e la violenza, elementi che hanno permesso all’Inghilterra di divenire una superpotenza mondiale, quale oggi è.
Sul dizionario Collins questa è la definizione di colony: A colony is a country which is controlled by a more powerful country.
Basti pensare che alla fine della prima guerra mondiale, l’Impero inglese possedeva colonie in tutti i continenti, ad esclusione della sola Antartide (non popolata): un quarto della superficie delle terre emerse era sotto la corona inglese. Da questi territori l’Inghilterra ha estratto e portato via le risorse che ne hanno permesso l’arricchimento. Alcune stime, hanno calcolato che solamente dall’India siano state estratte risorse per un valore di 45.000 miliardi di dollari.
“Se qualcuno si aspetta che io manifesti qualcosa di più del disprezzo per la monarchia che ha supervisionato un governo che sponsorizzò un genocidio, che massacrò e spinse all’esilio metà della mia famiglia ed che coloro che vi sono sopravvissuti stanno ancora cercando di superare, potete continuare a desiderare” ha scritto Uju Anya, docente universitaria e ricercatrice alla Carnegie Mellon University Department of Modern Languages.
Oppure l’associazione IndigenousX, fondata da Luke Pearson: “A coloro che dicono che dovremmo essere magnanimi per la scomparsa della regina, ricordiamo che la regina si è inserita più volte nella vita degli indigeni. Non è stata una spettatrice degli effetti della colonizzazione e del colonialismo, ma ne è stata un’artefice”.
E ancora l’EFF “Economic Freedom Fighters”, partito sudafricano di estrema sinistra: “Elisabetta salì al trono nel 1952, regnando per 70 anni come capo di un’istituzione costruita, sostenuta e vissuta da una brutale eredità di disumanizzazione di milioni di persone nel mondo“ quindi “noi non piangiamo la morte di Elisabetta, perché per noi la sua morte è un promemoria del tragico periodo in questo Paese e nella storia africana”.

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Non stupiscono i toni duri di molti attivisti, indubbiamente fortemente schierati ideologicamente, ma facenti parte di quella popolazione che ha vissuto l’altra faccia del dominio inglese: la violenza, la riduzione in schiavitù e la repressione, per i quali la memoria coloniale è un tratto inscindibile dal ruolo istituzionale che la regina Elisabetta ha rappresentato senza mai aver riconosciuto le atrocità commesse dall’impero britannico, né chiesto scusa o offerto delle riparazioni ai popoli schiavizzati.
Almeno questo quanto i popoli loro soggetti vorrebbero insieme alla restituzione di gioielli “rubati nel periodo coloniale”.
Evelyn Waugh, giornalista inglese, già nel 1936, l’anno della conquista dell’Etiopia e la fondazione dell’Impero, sciveva nel suo libro “In Abissinia: “L’idea di conquistare un Paese per andarci a lavorare, di trattare un impero come un luogo dove bisognava portare delle cose, un luogo che doveva essere fertilizzato, coltivato e reso più bello, invece di un luogo da cui le cose era possibile portarsele via, un luogo da depredare e spopolare; l’idea di lavorare come schiavi invece di starsene sdraiati ad oziare come padroni tutto questo era completamente estraneo ai loro pensieri [degli inglesi, nda]. E invece è il principio che sta alla base dell’occupazione italiana.”
Si è infatti riaccesa in questi giorni la disputa con l’India che chiede la restituzione del diamante Koh-i-Noor (Montagna di luce) da 105 carati, il cui valore è stimato in oltre 100 milioni di sterline, incastonato in una delle tiare dei Gioielli della Corona dal 1849, portato in Inghilterra alla regina Vittoria dopo la conquista del Punjab. Nel 1911 il Koh-i-Noor venne montato sulla tiara della regina Mary, per l’incoronazione di Giorgio V. Nel 1937 fu poi spostato sulla croce maltese della corona che Elizabeth Bowes Lyon, la madre della regina Elisabetta, indossò per l’incoronazione di Giorgio VI e poi proprio dalla regina Elisabetta quando salì al trono nel 1953. Nel 2013 il premier Cameron definì la richiesta “illogica”.

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I Cullinan sui gioielli della corona

Mentre il Sud Africa rivuole un’altra preziosissima gemma: la Great Star of Africa, conosciuta anche con il nome di diamante Cullinan, da 3.106 carati, il più grande diamante grezzo mai trovato, e si trova incastonato sullo scettro.
Fu rinvenuto nella miniera di Thomas Cullinan nel 1905. Due anni dopo donato al re Edoardo VII per il suo 66° compleanno. Il re decise di farlo tagliare ricavandone 9 pietre principali e 96 diamanti più piccoli. Tra questi il Cullinan I, di cui il Sud Africa chiede la restituzione e il Cullinan II, che oggi splende sulla Corona Imperiale di Stato.
Se a qualcuno venisse in mente di paragonare l’imperialismo inglese con il colonialismo (molto più breve) italiano, si rilegga sopra le parole di Evelyn Waugh e qualora non bastassero ricordiamo quelle dello storico inglese Denis Mack Smith dal libro “Le guerre del Duce”: “Nelle colonie furono riversati ininterrottamente fiumi di denaro, con guadagni assai scarsi, e la bilancia commerciale, a dispetto di tutte le speranze, in nessun momento favorevole all’Italia“.
E ricordiamo anche che l’Italia ha restituito all’Etiopia l’obelisco di Axum dopo che era stato installato nel 1937 davanti al Ministero delle Colonie, oggi sede della Fao in piazza Porta Capena a Roma. Manufatto non certo del valore del Koh-i-Noor o del Cullinan.
“La Gran Bretagna è l’unico paese dove i risultati dei saccheggi sono legalmente esibiti e usati per generare introiti per lo Stato” si legge in rete.

di Alberto Alpozzi

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