“London bridge is down” cioè la regina d’Inghilterra è morta. Agli inglesi piacciono sempre molto i codici. Per Giorgio VI il nome in codice era “Hyde Park Corner”, per la Regina Madre Elizabeth fu “Tay Bridge”, poi usato per lady Diana.
L’operazione “London bridge” dunque è il piano che organizza tutto ciò che deve essere fatto dopo la morte della regina Elisabetta II. Morta l’8 settembre.
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Il cerimoniale, redatto sin dagli anni Sessanta, prevede che sia il segretario privato della regina a comunicare il decesso al primo ministro britannico. Subito dopo vengono avvertiti i 15 governi dei Paesi di cui Elisabetta II è capo di Stato e degli altri 36 Paesi del Commonwealth con, appunto, la frase in codice “London Bridge is down”.
La parola Commonwealth deriva dall’unione di common (comune) e wealth (benessere), cioè benessere comune. Se per “comune” intendiamo Londra e la sua corona. Banalmente il Commonwealth è il successore del più altisonante e non più politically correct Impero coloniale Britannico.
I 15 reami che hanno ancora come capo di stato il sovrano di Inghilterra, da ora Re Carlo III, sono Antigua e Barbuda, Australia, Bahamas, Belize, Canada, Giamaica, Grenada, Isole Salomone, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Saint Lucia Tuvalu e, ovviamente, il Regno Unito.
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E proprio a Kingston capitale della Giamaica, appena meno di un anno fa, i Cambridge, cioè il Principe William e Kate Middleton, sono stati duramente attaccati durante la loro spedizione per cercare di fermare l’addio di molti Paesi al Commonwealth dopo l’ultimo strappo di Barbados, diventata ufficialmente una Repubblica.
L’accusa alla corona britannica è di aver guadagnato per secoli con lo schiavismo. Questo quanto dichiarato al Guardian da Opal Adisa, attivista per i diritti umani: «Kate e William beneficiano di quanto successo ai nostri antenati, mentre noi non ne beneficiamo. Sono quindi complici. Il loro stile di vita lussuoso è il risultato del sangue, delle lacrime e del sudore dei nostri bisnonni».
Tra l’altro, prima della partenza per i Caraibi, i Duchi erano stati costretti ad annullare la visita ad una piantagione di cacao nel villaggio di Indian Creek, nel Belize, per una dura protesta degli abitanti. William è stato accusato di essere legato a una associazione “compromessa con il colonialismo”.
I residenti si sono opposti all’atterraggio dell’elicottero della coppia reale sul campo da calcio del villaggio, ha riferito il Daily Mail: «Non vogliamo che atterrino sulla nostra terra».
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«Via dalle nostra terra», era il tenore dei cartelli della protesta. Oppure: «Re, regine, principi e principesse appartengono alle favole».
L’associazione Advocates Network – coalizione giamaicana per l’uguaglianza – inviò anche una nota alla coppia reale in cui annunciava di non voler celebrare il Giubileo di Platino e chiedendo alla Corona le scuse formali.
Più diplomatico il premier giamaicano Andrew Holness: «Siamo felici di avervi qui, ma non vogliamo più la regina come capo di stato. Il nostro obiettivo è diventare una repubblica».
Infatti la schiavitù costituì una pietra angolare dell’Impero britannico sin dal XVIII secolo.
In ogni colonia la corona aveva ridotto in schiavitù gli abitanti. La schiavitù fu più di un sistema lavorativo: influenzò infatti ogni aspetto del pensiero e della cultura coloniale dalle Indie alle Americhe passando per l’Africa.
Non va però dimenticato che in Africa la tratta degli schiavi era il commercio più lucrativo che ci fosse, praticato dagli arabi e dagli stessi africani, e che per secoli aveva scoraggiato qualunque altra forma di commercio. Inoltre l’iniquità della schiavitù fu una tarda scoperta della coscienza europea cristiana e la sua abolizione (formale) fu un mero interesse commerciale inglese. La questione si pose nel XVIII sec. quando i piantatori delle Indie occidentali, che per le loro coltivazioni di zucchero si servivano di manodopera servile, iniziarono a portare con sé in Inghilterra i loro schiavi domestici divenendo un facile bersaglio per gli attacchi dei cristiani più radicali.
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Nella legge inglese siccome non era previsto nulla che assomigliasse alla schiavitù, nel 1772 Lord Mansfield, a capo di un piccolo gruppo di pressione, composto soprattutto da cristiani evangelici, ebbe la sua prima vittoria attraverso una implacabile campagna contro il traffico inglese di schiavi, che arrivò più tardi anche nei territori britannici d’oltremare colpendo duramente l’istituto della schiavitù.
Fu così che nel 1807 il Parlamento inglese fu costretto a votare una legge che dichiarava illegale il traffico degli schiavi per tutti i sudditi britannici, imponendo per decreto, quattro anni dopo, multe altissime per chi seguitasse in quel commercio, sancendo così il termine (formale) della loro tratta degli schiavi.
Ma una volta abbandonato (formalmente) lo schiavismo, l’Inghilterra si diede subito a reprimere tale pratica sfruttata dalle altre nazioni. La loro non fu certo un’opera di pura filantropia infatti dietro vi erano semplici ragioni commerciali: con la soppressione sul piano internazionale di tale esercizio, prima che potessero svilupparsi scambi regolari fra l’Africa e l’Europa, dovettero prevenire la concorrenza che avrebbe messo in crisi i loro commerci la cui redditività derivava dallo sfruttamento delle popolazioni coloniali.
Il duca di Cambridge durante la controversa visita ai Caraibi, ha dovuto quindi riconoscere “la tristezza profonda” prodotta dalle “atrocità vergognose della schiavitù” in Giamaica, “che hanno macchiato per sempre la storia del Regno Unito”.
Come precedentemente fatto da suo padre Carlo nella sua trasferta a Barbados cinque mesi prima. Ma nessuno dei due ha mai pronunciato la parola “sorry”. Cioè la Corona non si scusa.
Non tutte le corone brillano di luce propria.
Alberto Alpozzi
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