L’anticolonialismo da bar: “Non ci avevano chiesto di civilizzarli”

Esistono ancora oggi profonde divergenze sulla legittimità o meno del colonialismo (ne abbiamo già parlato QUI), fenomeno tramontato nel secolo scorso.
Ma questa incongruenza deriva da una domanda anacronistica che non tiene per nulla conto del concetto di civiltà e della sua esatta determinazione più di cento anni fa.
Tuttavia ancora ci si ostina a giudicare e moraleggiare con l’attuale visione del mondo eventi dei quali non si conosce, o si fa finta di non conoscere, le motivazioni culturali, sociali ed economiche in seno alla quali maturarono nel loro svolgersi.
Il testo che segue è solamente un’analisi oggettiva e contestualizzata. Non fornisce giudizi di alcun tipo. I lettori saranno in grado, personalmente e soggettivamente, di formarsi una propria idea.

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Che cos’era la “civiltà” per i potenti del secolo scorso?
Con questo termine si indicava l’insieme dei caratteri materiali e spirituali della vita collettiva di un aggregato umano. Ciò portava inevitabilmente al confronto dei vari popoli e quindi a distinguere tipi diversi di civiltà e tra queste, tramite una banale valutazione comparativa, gradi diversi di civiltà.
Da cui era lecito ritenere arretrate quelle civiltà che presentavano condizioni di sviluppo che altre civiltà avevano oramai sorpassate. Ed era sempre lecito ritenere superiore la civiltà di quei popoli le cui condizioni materiali intellettuali e morali di vita ed i cui ordinamenti sociali presentassero una maggiore solidarietà od una maggiore potenza di energia e di opere, così da assicurare una maggiore somma di benessere ad una somma maggiore di individui appartenenti alla società.
Su questa base si era delineato un contenuto profondamente etico del concetto di colonizzazione. Il contenuto etico era già determinato da quello che ieri era un dubbio preliminare (e che oggi invece pare un imperativo morale, un rimbrotto): «È lecita in se stessa, e a quali condizioni, che soddisfino le superiori esigenze della giustizia e della morale, l’invadenza dei popoli di coltura superiore rispetto alle popolazioni indigene delle terre cui essi estendono la loro signoria?»1 cioè, fossimo al bar, quel “non ci avevano chiesto di civilizzarli” ricorrente.

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Grimaldello ideologico che cerca di investire con tutta la sua prosaicità l’espansione coloniale in se stessa, perché la negazione di questa facoltà costituisce la pregiudiziale dell’anticolonialismo più becero che ha fatto del giustizialismo sommario l’arma propria degli ignoranti.
La tendenza, come sempre, è quella di azzerare il dibattito e inibire il confronto, utilizzando slogan ad effetto basati su finto buonismo e inesistente altruismo, glissando su quanti all’epoca avevano teorizzato nella direzione che poi il mondo – civile? – andò per davvero.
Per Giovanni Bovio (1837 – 1903), filosofo, professore e deputato del Regno,vi era un diritto soltanto: quello della civiltà che si difende.
Oppure Rudolph von Jhering (1818 – 1892), giuristica, secondo il quale un popolo non esiste soltanto per sé ma anche per gli altri popoli. Egli riconosceva un interesse dell’umanità al di sopra di quello dei singoli popoli ed aveva proclamato che lo scambio dei beni materiali ed intellettuali è un diritto ed è un dovere imposto dalla natura stessa, nonché l’isolamento di un popolo è contrario alla suprema legge della storia: la socialità.

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Rispondeva pertanto a questo superiore interesse dell’umanità l’espansione coloniale dei popoli di coltura superiore, intesa a mettere in azione forze produttive in quei territori resi infruttuosi dalle popolazioni indigene, istituendo appositi ordinamenti politici e giuridici per tutelare gli individui. L’espansione coloniale dei popoli di coltura superiore era quindi conforme e giustificata.
Purché gli interessi supremi della civiltà fossero coordinati a quelli delle popolazioni indigene e determinassero una solidarietà di vita e di opere, attraverso l’intensificarsi di cooperazione e di mutualità, educando gli indigeni a bisogni sempre più elevati di progresso.
Di qui nasceva la negazione dell’asservimento degli indigeni e dello sfruttamento egoistico del loro territorio; l’aspirazione ad una solidale cooperazione di forze tutte armonicamente convergenti al benessere collettivo dei colonizzatori e degli indigeni.
Secondo queste linee si perveniva così ad un concetto umanitario della colonizzazione, cui veniva attribuita una finalità, che costituiva la giustificazione etica dell’espansione dei popoli di coltura superiore.
Cioè non si intendeva più soltanto un’attività diretta alla valorizzazione del territorio, ma come una attività spirituale che dovesse perseguire anche lo sviluppo materiale morale ed intellettuale degli indigeni e quindi il miglioramento del loro assetto politico e sociale.
Esisteva però – è doveroso riconoscerlo – tutta una dottrina che riteneva illusorio questo preteso indirizzo filantropico della colonizzazione. Ma le pregiudiziali dell’anticolonialismo da bar sono termini ormai superati: non si tratta ormai più di giudicare se sia stato lecito ed utile acquisire colonie, quanto di stabilire che cosa convenga fare ora delle ex colonie dove la tanto decantata (e frettolosa) decolonizzazione ha creato più danni che benefici senza portare, tranne in rari e poco duraturi casi, all’autonomia amministrativa per non parlare di quella economica.

di Alberto Alpozzi

NOTE
1. Amedeo di Savoia-Aosta, tesi di laurea “Rapporti giuridici fra gli Stati moderni e le popolazioni indigene delle loro colonie”, Palermo, 1924

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