Dato che il passato non si cancella, desidero rendere onore a mio padre che, dopo due guerre combattute in Africa Orientale ha contribuito a rendere grande l’Eritrea con il suo lavoro.
Era il 18 Ottobre del 1935 quando giunse l’ordine d’imbarco sull’elegante piroscafo “Saturnia” (requisito per motivi di guerra) tra cui il raggruppamento dei fanti piumati del 1° Battaglione Bersaglieri, 7° Reggimento.
Livio Giuseppe, mio padre, con il pesante zaino sulle spalle, prese dalla tasca il biglietto di viaggio che gli avevano consegnato al Distretto e si avviò con passo deciso verso la stretta scala della nave. Sul biglietto era indicato il nome e cognome del passeggero, il numero della sezione della nave alla quale si era stati assegnati, il numero di letto, il numero di rancio di appartenenza e il punto di riunione in caso di abbandono nave. C’erano inoltre stampigliate le seguenti diciture: “conservare il biglietto sino alla fine del viaggio”.
Una volta a bordo i reparti furono divisi in squadre di 10 uomini, con un capo squadra, e vennero condotti nelle zone dormitorio per prendere possesso delle loro cuccette. La parte di lusso della nave fu interdetta ai soldati ma riservata solo agli ufficiali. Nei dormitori gli spazi erano molto angusti e si stava appena stesi sulla brandina. La nave era stracarica e non si poteva passeggiare neppure sui ponti esterni mentre c’era ressa ad ogni angolo e già tra i soldati iniziavano le prime liti.
Da terra mamme, padri, mogli, fidanzate e bambini avevano gli occhi rossi: piangevano di commozione e salutavano senza sosta. Da sopra ogni punto della nave i soldati si sbracciavano per rispondere agli amici oppure ai parenti. Livio Giuseppe non aveva nessuno a salutarlo e allora con alcuni conterranei si fece fotografare a prua, all’ancora. Quella foto l’avrebbe spedita alla madre una volta giunto a Massaua.
Quando furono terminate le operazioni di imbarco il fischio della sirena di bordo ordinò ai marinai di togliere gli ormeggi e salpare le ancore. La folla in banchina si zittì per un attimo e poi esplose in un boato: migliaia di loro iniziarono ad applaudire freneticamente, mentre la banda militare intonava un inno patriottico. Quel saluto corale ben rappresentava l’augurio di tutto il popolo italiano ai soldati in partenza per l’Africa e i militari , lungo i parapetti, sventolavano i loro fazzoletti e il oro berretti.
Livio Giuseppe provò una stretta al cuore perché in quel momento realizzò che forse non era un avventura da poco quella che andava affrontando e gli venne in mente la sua casetta tra gli ulivi e la madre che sicuramente stava pensando a lui.
Mentre Livio Giuseppe con il suo reggimento solcava le acque del Tirreno sul “Saturnia”, già dal 3 ottobre di quello stesso anno veniva dichiarata la guerra all’Etiopia. Emilio De Bono, comandante i capo di tutte le forze italiane in Africa, ordina alle sue truppe di varcare il Mareb, confine tra Eritrea ed Etiopia, il lungo fiume che scorre per 680 Km, nascendo dal monte Tacarà a sud ovest di Asmara. Il primo attacco non incontra grandi resistenze. Pochi posti fortificati abissini sul cammino delle nostre truppe vengono spazzati via con l’intervento dei mezzi corazzati. La nostra aviazione non ha avversari. Gli aerei con il fascio sulle ali possono abbassarsi dove vogliono per bombardare e mitragliare. In tutto il mondo vengono accusati di compiere stragi nei villaggi abissini attaccati dal cielo, con l’uso anche dei gas all’iprite e a terra con lanciafiamme. Il primo balzo è facile. Adua praticamente viene occupata il 6 ottobre.
Nel frattempo il “Saturnia” con Livio Giuseppe a bordo il giorno 21 ottobre del 1935 fu in vista della costa egiziana e qualche ora dopo la nave entrava a Porto Said. I soldati in coperta erano affascinati dalla città: centinaia di militari come grappoli umani arrampicati sulle sartie, sulle coffe, sui paranchi, ammiravano il paesaggio egiziano, le palme, la gente con i turbanti. La rada non era molto ampia e il porto poteva ospitare solo poche navi. Quel giorno in banchina c’era una nave da guerra inglese e una francese. Nessun segno di saluto fu scambiato con la nave britannica mentre passando a prua della nave francese, invece, i marinai transalpini schierati sul ponte scattarono sugli attenti. Gli italiani fecero altrettanto. Questa era la conferma dei cattivi rapporti dell’Italia con la Gran Bretagna e le buone relazioni, invece, con la Francia-
La nave sostò in porto per tutto il giorno e la notte e per motivi di sicurezza, a nessuno fu permesso di scendere a terra. La città di Port Said era bellissima: strade dritte e asfaltate conducevano al porto; sul lungomare si scorgevano graziose palazzine in stile liberty, circondate da giardini lussureggianti, alberghi e ristoranti in moderni palazzi in stile europeo, molto eleganti e lussuosi. Il clima mite garantiva una primavera perenne mentre sulle spiagge si trovavano moderni stabilimenti balneari, con cabine dai colori vivaci e grandi ombrelloni conficcati nella sabbia. Numerosi barchini si avvicinarono sotto il bordo della nave: gli egiziani vendevano cianfrusaglie di poco conto, portasigarette in legno, fodere per cuscini, piccoli tappeti, cartoline della città che ai soldati era proibito acquistare. Un imbarcazione a remi con a bordo alcuni italiani residenti a Port Said, si avvicinò sventolando il vessillo tricolore inneggiando ai soldati, al Duce, al Re.
Il 22 ottobre il “Saturnia” riprese il mare per imboccare il Canale di Suez. A bordo l’igiene personale non era compito facile in quanto, quando si riusciva a fare una doccia, poiché si usava acqua di mare per lavarsi, era inutile adoperare il sapone tanto non faceva schiuma e quindi il cattivo odore si diffondeva per tutta la nave. La vita a bordo era monotona e stressante, per il gran numero di passeggeri, per la ristrettezza degli spazi a disposizione e per il comportamento incivile di molti soldati. Si annoiavano a centinaia e trascorrevano la giornata vagando senza meta, da poppa a prua e da un ponte all’altro. Scarseggiava l’acqua da bere e il piccolo bar di poppa, quando apriva, era subito preso d’assalto dai militari che a volte, dopo lunghe ore di coda, giunti al bancone si sentivano rispondere che non c’era più nulla da bere o mangiare.
La vista del Canale di Suez rianimò i soldati e mentre la nave vi si infilava, come in una grande autostrada, sulla sponda africana si scorgeva la linea ferroviaria e la strada asfaltata che congiungeva Porto Said a Suez e al Cairo. La sponda orientale, quella della penisola del Sinai appariva nuda come una immensa spianata desertica, punteggiata qua e la dalle tende dei beduini e dei cammelli immobili sotto il sole cocente. Sul lato egiziano, in corrispondenza delle rare stazioni ferroviarie, sorgevano villaggi con casette piccole ma graziose, abitate da cittadini europei che lavoravano per la società delle ferrovie, come i marconisti delle stazioni radio.
Il 24 ottobre la nave uscì dal Canale ed entrò in un grande stagno, “il lago amaro”: boe luminose rosse a destra e verdi a sinistra indicavano la rotta da seguire per evitare di incagliarsi sui bassi fondali. Dopo tre ore di navigazione il “Saturnia” raggiunse Suez: la città appariva ampia e ben illuminata. Nel porto c’erano poche navi, tutte in attesa di attraversare il Canale nell’altro senso. La navigazione proseguì ancora un poco all’interno del corridoio di transito, tra segnali luminosi sempre più distanti tra loro. Finalmente il piroscafo all’alba del 24 ottobre entrò nel Mar Rosso. Dopo la calma piatta assicurata dall’istmo artificiale la nave si mise a rollare leggermente ma continuò la navigazione senza problemi e senza sforzare i motori, mentre veniva scortata da branchi di delfini che saltellavano festosi a pochi metri di distanza della prua. L’avvicinamento al Tropico del Cancro cominciava a farsi sentire: la temperatura e l’umidità dell’aria da un giorno all’altro diventavano insopportabili. Il caldo opprimente toglieva energia e volontà a quei giovani soldati, anche se si stava all’ombra,
ll sudore colava abbondante sul volto e inzuppava le divise. Alla sera il caldo si attenuava leggermente ma l’aria restava calda e umida mentre nelle cuccette non si riusciva a dormire per l’assoluta mancanza d’aria, nonostante il moto della nave garantisse lo spostamento di grandi masse d’aria. Il clima tropicale non piaceva troppo agli italiani e i passeggeri della nave erano continuamente alla ricerca, spesso vana, di un angolino riparato dal sole, dell’acqua fresca e di qualche limone per calmare l’arsura. Nel mare si scorgevano squali con le lunghe pinne dorsali che suscitavano un istintivo terrore mentre all’orizzonte pennacchi di fumo rivelavano la presenza di altre navi dirette verso nord, con destinazione i porti del Mediterraneo.
Il mattino del 27 ottobre 1935 la nave “Saturnia” gettò le ancore nella rada di Massaua, nelle vicinanze di altre navi mercantili e da guerra italiane, anche esse in attesa di entrare nel porto. Nell’euforia generale il pensiero di Livio Giuseppe andò alla madre che in quel giorno festeggiava il suo compleanno, mentre Massaua gli si offriva in tutta la sua bellezz.a
Nel 1891 quando il primo Governatore dell’Eritrea Ferdinando Martini arrivò a Massaua, così la descrisse: “Che erano mai, paragonati con quelli, i tramonti mirati dai colli di Posillipo, dalle pendici del Monte Bianco, dalle isole di Staffa?
Chi vide tramontare il sole sul Mar Rosso non dimenticherà mai più, quanto campasse cento anni, tanta festa degli occhi, tanto bagliore di raggi, tanta vivezza di tinte. Un globo d’oro s’era da poco nascosto dietro un fulgido padiglione sanguigno, coronato d’archi gialli, i quali degradando di tono in tono, dall’arancio, al canario, si perdevano, sfumavano, in luci opaline, che animali non più visti, draghi crocei recanti sul capo gigli d’argento, ippogrifi azzurri cavalcati da demoni color di rame, parevano volare a diffondere per la volta del cielo.”
La vedevano diversamente le migliaia di sodati stipati nelle navi in attesa di sbarcare, sotto un sole cocente da oltre 50° all’ombra. Negli anni che vanno dal 1935 al 1941 a Massaua vivevano circa 20.000 abitanti , di cui 5.000 italiani. Era considerata la “Porta dell’Impero” ed è situata nella parte meridionale del Mar Rosso, all’estremità nord della baia di Archico su uno sfondo di montagne che si elevano oltre 3.000 metri. Era collegata ad un ardita ferrovia e da una teleferica con Asmara e da una rete di grandi strade dirette verso Asmara-Gondar-Dessiè, Addis Abeba. Sorge in singolare posizione su due piatte isole madreporiche di Massaua e di Taulud, congiunte tra di loro e con la terraferma con dighe in muratura e, sulle due penisole di “Gherar” e di “Ab-el Cader” che formano i vari bacini e insenature. L’isola di Massaua che formava la vecchia città araba, comprendeva il centro commerciale e la dogana. A Taulud sorgevano, invece, gli Uffici dell’Amministrazione Coloniale e le abitazioni per gli europei. Gherar era il quartiere industriale e Abd-el cader era occupata dagli Uffici del comando Supremo della Reale Marina e dalla stazione marconigrafica, da magazzini, dall’ospedale e dall’aeronautica..
Il porto fu rimodernato proprio in quegli anni, compresa la costruzione dell’impianto del nuovo acquedotto di “Dogali” e di una colossale fabbrica di ghiaccio e di distillazione dell’acqua marina. Era il porto più vasto e sicuro del Mar rosso, di facile accesso, formato dallo specchio d’acqua compreso tra le due isole e le due penisole. Lo sbarco dei passeggeri avveniva sulle banchine “Salvago Raggi” e “Regina Elena”, all’entrata nord dell’isola di Massaua, a poca distanza dalla Stazione Marittima. Fra Taulud e Gherar si apre il seno di “Edaga Behrai” frequentato da navi di carbone e carburanti mentre le navi militari erano ancorate nel seno di Gherar. Una delle banchine era lunga 825 metri e i magazzini doganali occupavano circa 34.000 metri quadri, di cui 20.000 coperti e sono collegati con i grandi magazzini di “Campo Marte”, gestiti dalla Banca d’Italia. lo scarico delle merci era facilitato da gru a vapore od elettriche, scorrevoli su binari. Il lungomare “Umberto I” detto comunemente “la banchina” era fiancheggiata da fabbricati e portici che offrono una passeggiata riparata dal sole. Scendendo dalle navi ci si trovava la “Capitaneria di Porto” con i magazzini doganali, lo stabile della “Società Coloniale Italiana” e la casa “Bamismuss” Proseguendo lungo il mare in direzione Sud –Ovest si sboccava nella vasta piazza “Principe di Piemonte”, già “Barattieri” dove sorgeva la Banca d’Italia.
Tuttavia il porto rimaneva comunque il problema più grosso poiché non era in grado di accogliere e smaltire tutto il materiale, uomini e mezzi che arrivavano dall’Italia, nonostante l’ampliamento delle banchine e dei magazzini. Solo tra Marzo e ottobre 1935 arrivarono a Massaua oltre 500 navi che dovevano sbarcare centinaia di migliaia di soldati e lavoratori, decine di migliaia di quadrupedi e di veicoli su gomma o corazzati. Le attrezzature del porto non erano in grado di scaricare più di 3.000 tonnellate al giorno di materiali ma la capacità di smaltimento era notevolmente inferiore e quindi le banchine e i magazzini continuavano ad essere ingombre e la navi erano costrette in rada inattive, con grave danno per gli armatori. A giugno del 1935 si era giunti ad un punto di collasso talmente grave che Mussolini stesso telegrafa al Generale De Bono : “metti immediatamente a disposizione dell’Ammiraglio Bavena una corvè militare di almeno 500 ascari, con paga doppia, per sgomberare le banchine del porto di Massaua dai rotoli di filo di ferro e del legname delle baracche. Si tratta di portare fuori di Massaua, a tergo di Massaua, a destra e a sinistra della strada Massaua-Saati, di filo di ferro e le plance che saranno poi utilizzati secondo le necessità. Si tratta di trasportare questi materiali a piedi, come noi abbiamo fatto molte volte durante la guerra”.
Quando Livio Giuseppe si apprestava a sbarcare con il suo reggimento a Massaua si vedevano dappertutto navi, navi, navi. Un bagliore di alto forno. Una temperatura da serra tropicale-mosche, zanzare. Fragorosi rombi di autocarri. Stridore metallico di verricelli in perpetuo movimento. Urli di sirene. Fischi di locomotive. Un quadro infernale e sublime.
CONTINUA…
di © Pasquale Santoro – Tutti i diritti riservati