Noi, ragazzi del 43 in Eritrea

C’è stato per noi il tempo della follia, con i polmoni che a 2400 metri scoppiavano ma alla bici non ci si rinunciava. Forse non lo sapete ma noi asmarini, quelli nativi, avevamo i polmoni più grandi degli abitanti delle pianure a causa dell’aria rarefatta di quelle altezze da capogiro. Con l’allenamento potevamo percorrere centinaia di chilometri.
Bici in Asmara che passione, non solo per correre ma soprattutto per scorrazzare in lungo e in largo per gli sterrati, verso i molti laghetti, tra i covoni di paglia e più ancora sulle strade per Massaua, Cheren, Adi Ugri, Decamerè. Brevi tratti, certamente, ma indimenticabili. Parlo di quando facevamo queste scappatelle senza avvisare i genitori, alla chetichella e in piena libertà. Sapevamo che i nostri iniziavano a preoccuparsi se non ci rivedevano al tramonto ma sino ad allora, per molti di noi, “no problem”.

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Ed è così che abbiamo potuto assaporare con le nostre due ruote la bellezza unica di campi coltivati a grano, paesini arroccati sulle montagne, filari di acacie con grappoli di nidi di uccelli tessitori, lunghi filari di oleandri bianchi e rossi che punteggiavano i bordi della strada e come le indistruttibili “pietre miliari” che segnalavano ogni km. di strada percorsa.
Le prime incursioni nelle Concessioni degli amici di famiglia, quella dei Bencini e di Battaglia, a qualche km. sulla camionabile per Adi Ugri e poi, oltre, molto oltre.
Le nostre gambe reggevano bene, anche il fiato, abituati come eravamo a correre a quelle altezze vertiginose che ad altri avrebbero fatto esplodere i polmoni. Al decimo chilometro a sinistra, sempre sulla strada per Adi Ugri incontravamo il villaggio di “Ad-Guadad” su una piccola altura. Ci salivamo a fatica con le bici lungo un sentiero sterrato che terminava in un boschetto di eucalipti. Ci aveva diverse volte portato Padre Ruffino per fare delle partite a pallone con i ragazzi del posto. Poi eravamo diventati amici e non perdevamo occasione per ritornarci accolti con the bollente e “berkutta”.
Al diciasettesimo chilometro, pochi per le nostre gambe, eravamo al villaggio di “Saladarò” con a destra il bivio per Himbertì, in un tripudio di terra rossa e, poco dopo, ci affacciamo sull’orlo dell’altipiano, al bacino superiore del “Mareb” che scorre attraverso la profonda gola del “Maazò”. Struggente ricordo di quel precipizio che ti si para davanti e dal quale potevamo dominare tutta la valle del Mareb. Le forature erano continue ma avevamo tutto l’occorrente per riparare le camere d’aria.

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Scendevamo poi nella stretta valle contornata da speroni di roccia sul fianco destro e, al km. 21 arrivavamo in una zona pianeggiante ma per breve tempo perché a 27 Km. dalla partenza da Asmara arriviamo a “Scichetti”, salite e discese mozzafiato, appollaiata su un altura, sempre a destra. Paradiso per i cacciatori che scendevano giù nella gola dove gli animali andavano ad abbeverarsi lungo il corso d’acqua che poi defluiva nel Mareb. Anche noi, con l’incoscienza degli anni verdi, nascondevamo le bici e ci dirigevamo verso la gola, aiutandoci a scendere aggrappandoci agli arbusti, mentre piccoli “saasa’”, miniantilopi con le corna fuggivano per ogni dove. Sul fondo della gola i soldati della Divisione Gaviniana avevano costruito dei pozzi in cemento, fondamentali per fornire acqua al villaggio di Scicchetti.
Che matti siamo stati, non sapevamo cosa era il pericolo se non per tutte le volte che capitombolavamo giù nelle cunette e ci medicavamo con un poco di saliva.
Quando arrivavamo al fiume “Mai Taclì” iniziavamo una serie di sali scendi attraverso basse colline. Poi, dopo una ripida discesa in curva giungevamo a “Deharos”, affacciata sul ciglio dell’ampia incanalatura del “Mareb” a 35 km. varcavamo il Mareb, come tanti piccoli De Bono, superando un magnifico ponte in ferro che ci avrebbe portato a “Debarowa”.
Tappa obbligata alle sorgenti del Mareb dove ci si arrivava attraversando una savana in terra rossa sino al punto in cui da enormi pareti costruite in pietra viva ci si poteva dissetare dai tubi che portavano l’acqua , costruiti dalla ditta di imbottigliamento Acqua Minerale Mareb.
Tra andata e ritorno circa 70 e più km. Stanchi, sudati, affamati, ma padroni del mondo.
Avevo una Bianchi, cambio Campagnolo a quattro rapporti. Infilata nel manubrio la fionda e dietro la sella, legata ,una borraccia d’acqua. Bastava poco per sentirsi liberi come non lo siamo più stati, percorrendo lunghi tratti in gruppo, con le mani sulle spalle dell’amico, occupando tutta la carreggiata. Poi, bastava che uno di loro si staccasse e via all’inseguimento, più veloci del vento, con i polpacci delle gambe indolenziti ed una voglia di vivere che ha segnato per sempre il nostro cammino.
Eravamo così, noi ragazzi del 43.

di Pasquale Santoro

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