Le teleferiche coloniali dell’Africa Orientale Italiana

IN SOMALIA
Sebbene fosse la più importante per la sua eccezionale lunghezza e abbia ricoperto un ruolo fondamentale durante la guerra del 1935-36, la teleferica Massaua-Asmara non fu l’unica dell’Africa Orientale perché ne sono esistite sia in Somalia che in Etiopia. Dopo quella dell’Eritrea la seconda per importanza era quella delle saline di Dante in Migiurtinia: anche se di essa si è già parlato in queste pagine, può essere interessante aggiungere qualche altro particolare.

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Le immense saline, estese per 600 ettari (poi saliti a 1000) si trovavano presso Hordio, un piccolo e inospitale villaggio indigeno dove la temperatura oscillava in permanenza sui 40 gradi e che era ritenuto il luogo più malsano della regione a causa delle acque stagnanti del Khor Hordio, la bassa laguna costiera che lo divideva dalla rocciosa penisola di Hafun.
L’unico vantaggio era la ricchezza di acqua dolce grazie ad abbondanti pozzi che si trovavano qualche chilometro a nord.
Si cominciò a pensare alle saline fin dal 1920 ma solo nel 1927, quando terminarono le operazioni militari nella zona, il complesso cominciò ad essere costruito ed iniziò a funzionare nel 1930: apparteneva alla “Società Migiurtinia”, fondata da imprenditori lombardi, divenuta poi “Società Saline Somale”.
La produzione fu di 95.268 tonnellate di sale nel 1931 che, entrata a regime, salì a 250.000 nel 1934, ma già si prevedeva di poterla portare a 400.000 e poi a 600.000 tonnellate. Il minerale era esportato principalmente in Giappone, in parte in blocchi allo stato naturale e in parte frantumato.
Si rinviò ad un momento successivo l’estrazione dalle acque salmastre di altri minerali come il magnesio e lo iodio.

Sul versante meridionale della penisola di Hafun, dove i fondali permettevano l’avvicinamento dei piroscafi, fu costruito dal nulla, affiancato solo da poche capanne, l’abitato di Dante dotato di ospedale, chiesa, magazzini frigoriferi e uffici, le cui acque nel 1934 registrarono l’arrivo di un centinaio di navi soprattutto inglesi e giapponesi, ma anche di altre nazioni (Grecia, Norvegia, Jugoslavia ecc.) che arrivavano vuote e caricavano sale e, in pochi anni, lo scalo divenne il secondo della Somalia dopo Mogadiscio per tonnellagio movimentato.
C’era anche un più limitato traffico di piroscafi e velieri italiani e arabi utilizzati per il trasporto delle merci di uso corrente per la comunità locale e per il movimento di passeggeri provenienti o diretti a Mogadiscio.
Il numero di operai indigeni si stabilizzò attorno alle mille persone mentre gli italiani erano 370 nel 1930, ma nel 1936, quando ormai gli impianti erano completati e a regime, si erano ridotti a 76.

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L’intero complesso comprendeva cantieri e altri stabilimenti oltre che a Dante e a Hordio, nelle località chiamate Calanca, El Gafi, Punta Carducci, Pontile di Hordio e Handa.
Esistevano linee di piccole ferrovie di servizio mosse da motrici diesel e 34 imbarcazioni fra rimorchiatori e chiatte. Una pista camionabile collegava Hordio alla dorsale Mogadiscio-Bender Cassim.
Ed eccoci alla teleferica: era divisa in due tratte: una, lunga circa 24 chilometri, serviva per il trasporto del minerale dalle saline a Hordio e proseguiva senza soluzione di continuità grazie a una stazione d’angolo attraversando la baia e raggiungendo Dante dove avveniva la frantumazione e con una seconda tratta di teleferica di poco più di due chilometri proseguiva fino al punto di imbarco del sale sui pontoni che poi lo portavano alle navi che sostavano a qualche centinaio di metri dalla riva a causa dei bassi fondali, problema quasi irrisolvibile di tutti i porti della Somalia.
Teleferica a parte, i cantieri erano completamente meccanizzati anche per tutte le lavorazioni collaterali, alleviando il lavoro che il clima torrido rendeva massacrante anche per gli indigeni: nell’area furono costruiti 8 impianti di pompaggio e vi si trovavano vari elevatori e nastri trasportatori, idrovore e aeromotori; il tutto era alimentato da due centrali termoelettriche ad Hordio e a Dante che si avvalevano di motori Tosi e Marelli con una potenza installata di circa 2.200 cavalli.

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La struttura posava su 107 piloni sul mare con intelaiatura in cemento armato e 67 a terra e struttura in ferro con ben 575 cestelli capaci ciascuno di 8 quintali di minerali e una potenzialità teorica di 150 tonnellate orarie.
La guerra, con le sue conseguenze e le asportazioni di materiale, bloccò ogni attività, ma nel 1950 si cominciò a pensare ad una riattivazione del complesso che non sembrava irrimediabilmente danneggiato dal conflitto, ma non se n fece nulla.
D’altra parte se prima del 1940 si pensava per la Somalia ad un futuro coloniale che sarebbe proseguito per un tempo indefinito, ormai tutte le nazioni europee, nell’incipiente clima di decolonizzazione, erano poco inclini ad effettuare grandi investimenti e a maggior ragione l’Italia, ancora in fase di ricostruzione e a cui la Somalia era tornata solo in amministrazione fiduciaria per un breve periodo che sarebbe terminato nel 1960.

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IN ETIOPIA
Altre teleferiche le costruimmo in Etiopia. A differenza di quelle dell’Eritrea e della Somalia, di consolidata utilità per i nostri interessi commerciali, si trattava in molti casi di strutture destinate a fini militari. L’asprezza di alcune regioni rendeva impossibile aprire delle strade o l’impeto dei fiumi nel periodo delle piene impediva i guadi: la tecnica, in teoria, avrebbe potuto superare ogni ostacolo ma, volendo proprio costruire certi manufatti, il loro costo sarebbe stato esorbitante rispetto all’importanza della località che si voleva raggiungere, tanto più che spesso si trattava di postazioni militari destinate a scomparire o essere trasferite in luoghi meno impervi una volta che si fosse normalizzata la situazione e consolidata la presenza italiana.
Il Genio militare disponeva di personale addestrato, allievo ed erede di coloro che durante la prima guerra mondiale avevano installato un gran numero di teleferiche sul fronte alpino. In Africa Orientale questo compito era affidato alla 18^ compagnia teleferisti.

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Le teleferiche furono montate soprattutto nella regione degli Ahmara per l’attraversamento dei fiumi Setit, Suà e Angereb, quest’ultimo al confine su del Tigrè. Due teleferiche permettevano di superare un ciglione di 650 metri sulla direttrice Tacazzè-Gondar e un’altra superava il Nilo azzurro a sud del lago Tana.
Furono costruite con cura, come se dovessero durare a lungo, durante la guerra del 1935-36, ma la loro vita fu breve ed esauritesi le operazioni belliche il materiale e i motori furono smontati e utilizzati in altro modo. D’altra parte era stato previsto.
Vi furono però molti altri progetti di teleferiche permanenti sia per il trasporto di merci che di persone: quello più importante riguardava il forte dislivello che dai 2.500 metri sul livello del mare di Dessiè scendeva verso il bassopiano dancalo. La teleferica sarebbe stata lunga circa 100 chilometri e la stazione inferiore sarebbe sorta al capolinea di una ferrovia proveniente da Assab; la costruzione del tratto Dessiè-Millé veniva data per imminente nel 1938, ma realizzazione della grande strada della Dancalia, la disponibilità di automezzi sempre più potenti e perfezionati e il tracciamento di un’organica rete viaria in tutto il paese dove le merci potevano viaggiare senza bisogno di trasbordi fece però abbandonare il progetto.

Non mancarono però un paio di linee effettivamente funzionanti a fini commerciali.
La società Matalini attivò una teleferica di 1.500 metri per il trasporto del legname che dalla zona di Agumbertà raggiungeva la Strada imperiale fra Macallè e Dessiè mentre la teleferica che dalla valle del torrente Uaha Titù, nella zona di Uccialli, settanta chilometri a nord di Dessiè, con un percorso di 2.300 metri raggiungeva una pista camionabile che si raccorda alla grande strada per Addis Abeba. Era al servizio di alcuni giacimenti di lignite ed aveva una potenzialità modesta, come modesta si dimostrò la resa della miniera che non fu più ripresa nel dopoguerra.
Nei progetti vi erano anche numerose funivie per il trasporto di passeggeri in quei punti dove si prevedeva che l’ambiente si sarebbe prestato a uno sviluppo turistico: naturalmente per queste tutto rimase sulla carta e di esse non iniziò neppure una progettazione di massima.

di Guglielmo Evangelista

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