La vita straordinaria di Gianfranco Chiti, da ufficiale a francescano tra guerra, resistenza e AFIS in Somalia

Ormai siamo abituati a vederci negato il diritto di conoscere i tanti personaggi storici non in linea con la retorica e la narrativa ufficiale, si tenta in tutti i modi di occultarli o comunque di sostituirli con altri personaggi abbastanza allineati a determinati schemi, che più che altro rispondono ad esigenze politiche più che ad esigenze legate alla ricerca storica.
Non è un mistero che la storia Italiana in Africa venga mistificata, specie quando si deve per cieca ideologia attaccare un preciso fenomeno storico come il colonialismo, che nel bene o nel male oltre che essere un aspetto centrale della storia nazionale, è anche un perno centrale per affrontare le tematiche attuali tanto per garantirsi l’indottrinamento delle nuove generazioni, quanto per nascondere che in fin dei conti tutte le istituzioni italiane susseguitesi da quando la stessa Italia esiste puntavano ad occupare direttamente o indirettamente determinati scacchieri.

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Dopo questa premessa la vicenda di cui ci accingiamo a parlare è una di quelle storie da lasciare sorpresi gli addetti ai lavori, dato che si tratta di un ex ufficiale dell’esercito che in carriera difese tutte le bandiere che la storia d’Italia conobbe.

Gianfranco Chiti nasce a Gignese in provincia di Novara il 6 maggio 1921, figlio di Giovanni Chiti e Giovanna Battigalli.
A 14 anni è ammesso al collegio militare di Roma, e tre anni dopo accede all’accademia militare di Modena.
Il 20 aprile 1941, in piena seconda guerra mondiale, entra nei Granatieri di Sardegna come sottotenente e dal 1° gennaio 1942 sino all’aprile dello stesso anno, viene inviato subito nell’attuale Slovenia per contrastare le barbarie dei partigiani titini.
Dopo una parentesi sul fonte greco-albanese, il 16 giugno 1942 assieme all’8° armata viene spedito in Russia sul fronte orientale, e venendo anche promosso tenente partecipa alla battaglia di Karkov per la conquista del Donez.
Medaglia di bronzo al valor militare e croce di ferro della Wehrmarcht di seconda classe durante la difesa del Don, rimanendo sempre fedele alla sua compagnia ormai di pochi superstiti, viene rimpatriato dopo un principio di assideramento ad entrambe le gambe.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana e contrasta le bande partigiane di Enrico Martini “Mauri”, impedendo anche in alcune occasione ai suoi soldati di infierire sul nemico, salvando anche la vita a circa 200 partigiani che sarebbero dovuti essere fucilati, secondo la testimonianza di Don Bernardino Restagno (cappellano militare dei partigiani di Martini).
Rinchiuso nel campo di concentramento di Coltano assieme al famoso poeta ed esponente modernista Ezra Pound, viene scagionato da accuse infamanti ma comunque epurato dall’esercito a guerra finita.
Dopo una parentesi di qualche anno come insegnante (1945-1948) nel Liceo Ginnasio “Giuseppe Calasanzio” degli scolopi a Campi Salentina in provincia di Lecce, ritorna ai Granatieri di Sardegna il 31 marzo del 1948, e viene assegnato per cinque anni (1949-1954) al “Comando delle Forze Armate di Somalia”.

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In Africa ricoprì vari incarichi durante il periodo dell’AFIS in cui era di stanza in Somalia, tra i quali nel 1952 comandante di compagnia ed assessore presso la Corte d’Assise della Somalia ed assessore presso i tribunali regionali, dal 1953 al 1954 comandante di compagnia a Mogadiscio; ma la sua parentesi africana nell’interesse somalo continuò anche fuori dal servizio quinquennale in loco, con l’incarico dal 1954 al 1955 in Italia al Ministero degli Esteri con incarichi speciali per la Somalia, e dal 1955 al 1957 alla scuola di fanteria di Cesano come direttore dei “Corsi Allievi Ufficiali Somali”. Fu istruttore di due capi stato come Mohamed Aidid e Siad Barre.

Siad Barre molti anni dopo in visita ufficiale in Italia, andò a trovarlo al convento di colle San Mauro a Rieti, raccontando oltre ad un simpatico aneddoto su un allievo ufficiale somalo che chiese una volta di potersi recare al bagno dicendo “di voler andare al cesso”, che la risposta che gli venne data da Chiti fu che la parola “cesso” fosse volgare e non si addiceva ad ufficiale, vedendosi chiedere come allora poteva chiedere in maniera elegante di andare al bagno, il nostro Chiti gli rispose facendo il nome di un personaggio politico italiano di quegli anni di cui né l’ormai umile frate né il capo di stato vollero ripetere ai giornalisti.
Pare comunque che l’Allievo non capendo che si trattasse di uno scherzo, rimase convinto che “cesso” in maniera gentile in italiano si dicesse col nome e cognome di questo politico, e che tornando in Africa lo insegnò a tutti quelli che volgarmente dicevano in italiano di “dover andare al cesso”.
Congedatosi definitivamente dall’esercito nel 1978, entrò nell’ordine dei Frati Cappuccini, ed essendo stato ammesso al noviziato nello stesso anno, fu ordinato sacerdote nel 1982.
Nel 1990 inizio a ricostruire l’antico convento di San Crispino da Viterbo ad Orvieto (in stato d’abbandono da molti anni) recuperandolo e restituendolo alla comunità come luogo di culto e preghiera.
Morì a Roma all’ospedale militare del Celio il 20 novembre 2004.
Nel maggio del 2015 venne aperta la causa di beatificazione, ed il 30 marzo 2019 nel Duomo di Orvieto si celebrò la cerimonia solenne per la chiusura del processo diocesano della causa di beatificazione e canonizzazione del Servo di Dio Fra Gianfranco Maria Chiti da Gignese.

di Gianluca Cocco

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