La rivolta dei Boxer a Montecitorio. L’Italia politica ed il corpo di spedizione in Cina

La partecipazione nel biennio 1900-1901 di un contingente militare italiano alle operazioni per la repressione della rivolta dei Boxer in Cina è stata ampiamente analizzata dalla storiografia militare sia per quel che riguarda il ciclo operativo sia per alcuni aspetti particolari come quello uniformologico. Manca tuttavia uno studio dettagliato sulle vicende politico-parlamentari connesse alla rivolta dei Boxer, ovvero sulle reazioni della politica italiana di fronte agli episodi chiave – o come tali percepiti – della campagna internazionale in generale e del Corpo di Spedizione italiano in Cina in particolare. Occorre quindi indagare su quali furono le reazioni dei parlamentari rispetto alla rivolta dei Boxer e quanto dette reazioni fossero ispirate dagli organi di stampa e, più in generale, dall’opinione pubblica.
Alla vigilia della spedizione cinese l’Italia aveva radicalmente cambiato la propria politica coloniale: se fino al 1896 l’espansionismo era stata la linea dominante, dopo Adua Roma aveva optato per un periodo di “raccoglimento” che sembrava aver messo

Antonio di Rudinì (sx) e Francesco Crispi (dx) i due poli della politica coloniale italiana

Bersaglieri italiani alla Grande Muraglia durante la spedizione di Calgan.jpg

fine ai piani dei più convinti assertori dell’africanismo. Il successore di Francesco Crispi, il conservatore siciliano Antonio Starabba di Rudinì, stipulò il trattato di pace con l’Impero d’Etiopia (26 ottobre 1896) e cedette Cassala ai britannici (dicembre 1897) dopo una violenta crisi diplomatica con Londra dovuta alla pubblicazione, non concordata, di documenti diplomatici riservati delle trattative intercorse tra le due capitali nel “Libro Verde” relativo alla questione abissina. Il fronte anti-coloniale ottenne così la sua rivincita sul “crispismo” ed ai più pareva impossibile che l’Italia potesse imboccare nuovamente, in un futuro prossimo, la via dell’espansione.
Il disastro di Abba Garima aveva influito anche sui bilanci militari: se gli anni ’80 erano stati contrassegnati dalla dilatazione delle spese militari con una corposa disponibilità economica per i programmi d’ammodernamento, nel decennio successivo – anche a causa della crisi finanziaria dello Stato – si era passati ad una contrazione degli investimenti. Il ministro della Guerra, generale Cesare Ricotti Magnani – che già aveva ricoperto la carica con alterni risultati nel 1870-1876 e nel 1884-1887 – accettò i tagli imposti dal di Rudinì; il suo successore, un uomo della “sinistra monarchica”, il generale Luigi Pelloux, tentò di arginare la politica della “lesina” dirudinana applicata anche ai bilanci militari ma potè fare poco di fronte alle montanti correnti dell’opinione pubblica per le quali al blocco della politica coloniale corrispondeva necessariamente una diminuzione radicale delle spese per le Forze Armate. A rendere ancora più acuta la crisi arrivarono i moti del 1898 repressi nel sangue dall’Esercito – famoso restò l’ordine del generale Fiorenzo Bava Beccaris a Milano di cannoneggiare la folla – che, se politicamente ed istituzionalmente garantì così la tenuta dello Stato unitario, culturalmente aprì una spaccatura profonda tra la società civile e quella con le stellette.
Spaccatura che il successore di Di Rudinì, Luigi Pelloux, tentò di colmare attraverso l’azione mediatrice della Pilotta guidata prima dal generale Giuseppe Mirri e poi ad interim dallo stesso Pelloux, uomo di sinistra alla guida di un governo espressione della destra. Il nuovo corso fu però inaugurato dal generale Coriolano Ponza di San Martino, aristocratico piemontese, medaglia d’argento a Villafranca nel 1866, capo della Divisione di Stato Maggiore al Ministero della Guerra, colonnello comandante del 7° Reggimento Bersaglieri e del 1° Reggimento Cacciatori d’Africa tra il 1887 ed il 1888 durante la spedizione africana di Asinari di San Marzano, capo di Stato Maggiore del IX Corpo d’armata di Roma. Ponza di San Martino sedette su diretta richiesta di Re Umberto I° alla “sedia tempestata di spilli” – come scherzosamente i giornalisti la chiamavano – della Pilotta dovendo gestire la difficile situazione suddetta e trovandosi ad essere uno dei protagonisti delle vicende politiche legate alla rivolta dei Boxer.
L’interesse per la Cina era emerso già agli albori dell’esperienza coloniale italiana ma solo dopo Adua era giunto a maturazione seppur con magri risultati. Le vicende dei “sindacati industriali” italiani nel Celeste Impero, in particolare quella del “Peking Syndicate” italo-britannico , ed i risvolti che portarono alla crisi di San Mun rappresentarono la cartina al tornasole d’una fase di trapasso dal colonialismo di tipo tradizionale crispino all’imperialismo difensivo sull’onda del rinunciatarismo dirudiniano (https://italiacoloniale.com/2019/11/07/il-peking-syndicate-e-lavventurismo-industriale-italiano-in-cina-tra-la-crisi-di-san-mun-e-la-rivolta-del-boxer/).
La rivolta dei Boxer non fece altro che portare alla luce del sole questo interesse particolare dell’Italia per i territori del Celeste Impero in una fase in cui, per tutta una serie di ragioni, la via dell’espansione in Africa sembrava chiusa. Fin dalle prime violenze commesse ai danni di missionari e civili occidentali in Cina, al governo italiano apparve in tutta evidenza la necessità di dare al problema cinese non solo una soluzione militare condivisa con le altre potenze, ma anche un risvolto politico a vantaggio di Roma in un’ottica di recupero del prestigio nazionale perduto ad Abba Garima quattro anni prima, secondo i più canonici tratti della dottrina coloniale italiana. Visto il rapido precipitare degli eventi il governo italiano iniziò a muoversi in tal senso.

L'aula della Camera dei Deputati

L’aula della Camera dei Deputati

Del 25 giugno 1900 – a cinque giorni dall’inizio dell’assedio al quartiere delle legazioni a Pechino – è il telegramma inviato all’ambasciatore a Berlino Alberto Pansa dal ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta nel quale emerse l’idea di formare un corpo di spedizione costituito da reparti del Regio Esercito da affiancare ai marinai già presenti in Cina e che stavano partecipando alle operazioni militari contro boxer e soldati regolari cinesi: «Mi domando – scriveva Visconti Venosta – se alla nostra cooperazione navale giovi aggiungere anche un limitato contingente di truppe di terra. Questo contingente, anche partendo in brevissimo termine, non arriverebbe probabilmente in tempo per l’azione ora impegnata […] ma è supponibile che, una volta ristabilito l’ordine a Pechino, le potenze debbano lasciarvi, almeno per qualche tempo, delle truppe a tutela dell’ordine, e per sostegno e controllo dello stesso governo cinese, che dovrebbe però dare le necessarie guarentigie».
L’idea di impiegare truppe di terra in Cina, benché fosse solo un’ipotesi paventata da Visconti Venosta, rispondeva in realtà alla necessità – che alla Consulta appariva chiarissima – di avere una presenza militare in Cina tale da poter poi difendere, al momento del trattato di pace, gli interessi italiani che erano di natura anzitutto politica e poi commerciale. Un contingente militare del Regio Esercito in loco sarebbe stato un qualcosa in più da poter mettere sul piatto della bilancia per Roma che, tra le potenze dell’alleanza delle otto nazioni, era quella con meno interessi in Cina e quindi quella che rischiava di ottenere la minima parte del bottino che ci si preparava a spartire.
Se all’inizio sia Pelloux che Visconti Venosta pensavano di inviare un solo battaglione, ai primi di luglio il ministro della Guerra Ponza di San Martino fece notare che una forza così esigua non solo non avrebbe potuto eseguire appieno i compiti di coordinamento della missione di salvataggio delle legazioni assediate, ma avrebbe anche esposto l’Italia a pesanti critiche visto che proprio in quel periodo gli alleati stavano rinforzando in modo sostanziale le proprie forze in Cina. Dalla Pilotta arrivò così la proposta di formare un vero corpo di spedizione forte di 2000 soldati e 500 marinai che fu accettata dal governo ed il 5 luglio il ministro Ponza di San Martino, inviando una circolare riservatissima al comandante del Deposito della Colonia Eritrea di Napoli, fissò le norme relative al personale, all’equipaggiamento individuale e generale, ai quadrupedi ed all’amministrazione del costituendo corpo di spedizione. Nonostante le truppe fossero equipaggiate come quelle per una spedizione di tipo prettamente coloniale ( i richiami ai modelli di equipaggiamento e strumentazione logistica “tipo Africa” sono frequenti nel testo della circolare) nei fatti Ponza di San Martino intuì le specificità del teatro d’operazioni cinese e nel rapporto tenuto agli ufficiali del Corpo di spedizione a Napoli prima della partenza spiegò di aver incaricato il regio console a Shanghai di provvedere all’acquisto di 2000 pellicce per far fronte al rigido inverno che, in alcune zone, arrivava a toccare temperature fino a 20° sotto lo zero.

La partenza del Corpo di Spedizione per la Cina (19 luglio 1900)

La partenza del Corpo di Spedizione per la Cina (19 luglio 1900)

Fin qui quel che venne stabilito nel chiuso delle stanze dei bottoni alla Pilotta ed alla Consulta. Se in un primo tempo il Parlamento ed i giornali si occuparono della crisi cinese come di una questione di politica estera, tra novembre e dicembre del 1900, sull’onda della campagna di stampa – che aveva assunto toni molto forti in Germania, Francia e Gran Bretagna – che denunciava saccheggi e crimini dei soldati europei dopo la liberazione di Pechino, l’impegno militare italiano in Cina venne sfruttato al fine di indebolire la maggioranza governativa.
Il luogotenente di vascello della Marine Nationale e accademico di Francia Pierre Loti, che alla professione di ufficiale affiancava quella di corrispondente in Cina per “Le Figaro”, vide con i propri occhi le efferatezze delle truppe occidentali contro i pechinesi fin dai primi giorni di agosto, quando cioè le forze alleate ruppero finalmente l’assedio al quartiere delle legazioni. In una corrispondenza inviata al giornale e pubblicata poi anche nel libro “Les Dernièrs jours de Pékin” Foti – che dopo la conquista della Città Proibita aveva dormito nel letto dell’imperatrice Cixi utilizzando le sue vesti dorate come coperte – scrisse: «Ci sono venuti i giapponesi, eroici piccoli soldati di cui non vorrei parlar male, ma che distruggono e uccidono come in altri tempi le orde barbare. Ancora meno vorrei sparlare dei nostri amici russi, ma hanno spedito qui cosacchi provenienti dalla vicina regione tartara, siberiani mezzo mongoli, tutta gente abilissima a sparare, ma che concepisce ancora la battaglia alla maniera asiatica. Poi sono arrivati qui gli spietati cavalieri d’India, delegati dalla Gran Bretagna. L’America ha inviato i suoi mercenari. Non c’era più nulla di intatto quando sono arrivati, nella prima eccitazione della vendetta contro le atrocità cinesi, gli italiani, i tedeschi, gli austriaci, i francesi». Il comandante delle forze americane, generale Adna Romanza Chaffee denunciò ai giornalisti le pratiche dei processi sommari e delle esecuzioni di massa contro i civili sospettati di essere boxer specialmente da parte dei soldati giapponesi ed indiani.
Queste testimonianze, che furono in breve riprese anche dai principali giornali italiani, in particolar modo quelli espressione del Partito Socialista Italiano e dell’opposizione repubblicana, forze contrarie all’intervento in Cina, diedero adito alle interrogazioni parlamentari nella sessione pomeridiana della Camera dei Deputati il 6 dicembre 1900. In una sessione nella quale si presentavano importanti disegni di legge come quello sull’Acquedotto pugliese o quello sul Bilancio dei Lavori Pubblici a tenere banco fu invece l’interrogazione indirizzata ai ministri di Esteri, Guerra e Marina sulla condotta di soldati e marinai italiani in Cina, apparentemente un tema secondario nell’agenda dell’Aula e, più in generale, del Paese ma che fu utilizzata per attaccare violentemente la politica estera del governo presieduto dall’ottuagenario leader della sinistra moderata Giuseppe Saracco. Le interrogazioni furono presentate dal repubblicano Gustavo Chiesi e dai liberal-conservatori Luigi Luzzatti (il figlio era uno dei fondatori del “Peking Syndicate) e Carlo Donati. L’iniziativa a destra era stata presa da Luzzatti che, a seguito delle notizie giunte dalla Cina sulle atrocità perpetrate dagli europei, aveva chiesto se si potesse «confermare la lieta notizia che i nostri valorosi soldati e marinai in Cina si siano tenuti estranei a atti di stragi e rapine» mentre Donati, con il beneficio del dubbio, interrogò i ministri «per sapere come i nostri soldati si condussero in Cina, e se presero parte alcuna alle atrocità che si affermano commesse dalle truppe europee». Se i liberal-conservatori avevano quasi la necessità di garantire il buon nome delle Forze Armate, i repubblicani erano alla ricerca di uno strumento polemico utile a mettere in imbarazzo non solo il governo ma le istituzioni monarchiche nella loro interezza. Ecco perché l’onorevole Chiesi non si soffermò solo sulla veridicità o meno delle notizie dei saccheggi ma pose anche un quesito d’ordine politico ai tre ministri interrogati domandando se «la permanenza della nostra bandiera fra gli alleati non implichi la complicità morale dell’Italia in questi eccessi».
Per conto del governo rispose il ministro della Guerra Coriolano Ponza di San Martino spiegando che, all’arrivo delle notizie via telegrafo di presunti saccheggi perpetrati dalle truppe italiane in Cina, immediatamente fu richiesto un rapporto al capo della Regia Legazione a Pechino dal quale fu spiegato che: «Primo, non esistevano le località le quali erano citate come teatro di disordini; secondo, che egli aveva la convinzione che nella marcia dei marinai di cui si parlava da Tiensin verso Pechino non vi fossero state né violenze, né saccheggi, mentre nella marcia su Pao-ting tali asserzioni erano assolutamente smentite dal comandante delle truppe». Per quanto riguardava direttamente il Ministero della Guerra invece, Ponza di San Martino spiegò che negli

Il colonnello Vincenzo Garioni, comandante del Corpo di spedizione italiano in Cina

Il colonnello Vincenzo Garioni, comandante del Corpo di spedizione italiano in Cina

ultimi rapporti del colonello Vincenzo Garioni (comandante del Corpo di Spedizione) datati 10 ottobre non veniva fatta menzione alcuna di atti «meno che onorevoli» commessi dalle truppe italiane e che la loro condotta specchiata era stata confermata anche dal generale britannico Darward, comandante della spedizione diretta a Pao-ting il quale aveva riconosciuto, in una lettera pubblicata dalla stampa italiana il 14 settembre, il contegno e le ottime qualità delle nostre truppe.
Il ministro della Guerra, dopo aver messo al corrente l’Aula di questi dati, dichiarò: «Io dunque mi credo autorizzato a smentire le asserzioni di cui si parla e lo faccio tanto più sicuramente per la lunga conoscenza che ho del nostro soldato, il quale, di carattere generoso quantunque impulsivo, subisce fortemente l’azione dell’esempio, cosicché quando l’ufficiale ne divide i pericoli, i disagi e le fatiche, e ne cura il benessere, ne ottiene quello che vuole. Io quindi non dubito che i nostri soldati abbiano sempre conservato una disciplina tale da escludere la possibilità di qualunque rappresaglia e che non abbiano dimenticato mai che la generosità è dei forti». Certo, il ministro sbagliò nel credere che, vista la buona reputazione militare degli eserciti francese e tedesco ad esempio, i rispettivi corpi di spedizione non si fossero abbandonati agli eccessi; l’idea che gli ufficiali erano capaci di controllare i propri soldati limitandone i comportamenti “impulsivi” poteva essere anche vera ma nei fatti, viste le direttive politiche (si veda ad esempio il discorso tenuto dal kaiser Guglielmo II alle truppe in partenza per la Cina) con le quali la coalizione occidentale affrontò la guerra in Cina, furono gli stessi quadri ad incoraggiare le rappresaglie. Un dato interessante è però quello sulla sfiducia generale nelle corrispondenze private – pasto prelibato per i giornalisti esperti di questioni coloniali in cerca di scoop – che Ponza di San Martino mostrò nel proseguio del proprio intervento: «Io dico francamente che, per l’esperienza che ne abbiamo fatta, quest’estate nel mese di luglio, quando per lungo tempo si sono tenuti i nostri animi sospesi sulla sorte delle legazioni, facendo credere che esse erano state distrutte e massacrate, descrivendoci perfino uccise dai loro mariti , per salvarle dal disonore, le mogli dei ministri, mentre esse stanno ora tranquillamente a Tokio e Nagasaki in buona salute non presto fede alle corrispondenze private, tanto più che una volta con la penna in mano molte persone sono portate all’esagerazione per quella smania di produrre un qualche effetto». L’attacco verbale del ministro, nemmeno troppo velato, era rivolto a quella parte della stampa d’opposizione che stava utilizzando in quei giorni le lettere di soldati, diplomatici e uomini d’affari presenti in Cina che fungevano da “corrispondenti” e che, spesso, si lasciavano andare a ricostruzioni fantasiose poco credibili, facilmente smentibili con numeri e dati alla mano, ma che nel frattempo facevano effetto sull’opinione pubblica.

Luigi Barzini, inviato del Corriere della Sera in Cina

Luigi Barzini, inviato del Corriere della Sera in Cina

La questione sembrò esaurirsi ma nell’edizione del 7-8 gennaio 1901 de “Il Corriere della Sera” fu pubblicata un’ampia corrispondenza dalla Cina datata 21 dicembre 1900 e firmata da Luigi Barzini, uno dei giornalisti più famosi del momento, una penna affilatissima della stampa nazionale e non solo. Nel suo articolo Barzini analizzava i principali episodi che avevano contraddistinto la presenza militare occidentale nel Celeste Impero soffermandosi, ovviamente, sulle operazioni condotte dal Corpo di Spedizione italiano. Il quotidiano milanese aveva introdotto già da qualche anno l’usanza di inviare corrispondenti esperti non solo nelle capitali europee ma anche in colonia e sui fronti di guerra, cosa che garantiva l’arrivo di notizie sempre fresche e, soprattutto, in esclusiva rispetto ai quotidiani concorrenti costretti ad attendere i dispacci ed i telegrammi delle agenzie, le quali molte volte venivano anticipate dai giornalisti del “Corriere della Sera”.
Luigi Barzini si era recato in Cina, primo corrispondente italiano in assoluto nel Celeste Impero, già dal luglio del 1900 arrivando a Pechino da Genova via piroscafo e dopo aver ingannato la concorrenza italiana e straniera facendo credere di essere ancora a Londra (dove era stato inviato dal direttore amministrativo del “Corriere della Sera” Luigi Albertini per imparare l’inglese) battendola sul tempo. In Cina Barzini tentò di comprendere quali fossero i grandi cambiamenti in atto, come cioè un Paese decadente e con tradizioni granitiche si stesse avviando alla modernità; per fare questo intervistò i più alti funzionari del governo imperiale riuscendo a strappare un’intervista anche al ministro degli Esteri Li Huan-Sang, mandarino fortemente ostile alla penetrazione occidentale sia che fosse commerciale sia che nascondesse anche fini politico-strategici.
Barzini seguì praticamente tutte le operazioni contro i boxer e l’esercito regolare cinese annotando che: «Bisogna vedere, correre, informarsi sui luoghi, affrontare pericoli, rimanere digiuni, senza letto, bisogna scrivere sulla sella con le mani rattrappite dal gelo, portare i dispacci allo Stato Maggiore […]. Vi sono momenti nei quali si pensa che se si resiste è un miracolo». Il lungo articolo del 21 dicembre era il sunto di quanto vissuto da Barzini nel corso dei mesi al seguito delle truppe occidentali ed iniziava con la descrizione inclemente dello sbarco del Corpo di Spedizione italiano nella rada di Taku: «La nostra mancanza di previsione cominciò a mostrarsi allo sbarco stesso delle truppe. Non si era pensato che non si approda a Taku, che sono necessari dei vaporetti o dei rimorchiatori per portare gli uomini e il materiale fino all’imboccatura del Pei-ho. Tutti ne avevano; vaporetti con le bandiere giapponesi, inglesi, tedesche e francesi, facevano un andirivieni tra le squadre e gli embankments di Tong-ku. Noi dovemmo servirci di quelle pittoresche, ma sfasciate carcasse che sono le giunche, col risultato che diverse imbarcazioni cariche di roba sono colate a fondo per il mare agitato. Abbiamo così perduto gran parte del materiale medico e non so quanta altra roba, per sopra a trecentomila lira. Altre giunche sono affondate poi nel Pei-ho per, mi dicono, errori di manovra, e il danno avuto supera di parecchio il valore di non uno, ma di quattro ottimi rimorchiatori. Dopo di ciò, a sbarco finito…male, abbiamo – indovinate! – abbiamo comperato il rimorchiatore che ci voleva!».
Un violentissimo attacco alla gestione in loco dei comandanti dell’Esercito e della Marina i quali, durante le operazioni da sbarco da Taku alla foce del fiume Pei-ho, vista la mancanza dei rimorchiatori e delle gru (che costrinse i soldati a portare a braccia i quadrupedi sulla terraferma), furono costretti a rivolgersi agli alleati tedeschi, inglesi e russi che – essendo arrivati prima – avevano requisito tutte le giunche disponibili ed occupato le aree ed i fabbricati atti a fungere da magazzini per lo stivaggio di materiali nella zona di Tong-ku da cui partiva la ferrovia per Pechino. Costretti a sbarcare a piccoli scaglioni trasferendosi poi a Tientsin tramite ferrovia, gli italiani si trovarono nuovamente in difficoltà per partecipare alle operazioni nell’entroterra dove, scrisse Barzini, «abbiamo dovuto sempre domandare il soccorso degli altri per i trasporti».
Basta la premessa per capire quanto scalpore fece l’articolo di Barzini sull’opinione pubblica e, di riflesso, nei circoli politici. L’onorevole Gustavo Chiesi, che a dicembre aveva dichiarato di dover approfondire le questioni relative alla spedizione cinese, iniziò a preparare un nuovo dossier per fare un’interpellanza diretta al generale Ponza di San Martino con la quale il deputato repubblicano intendeva chiedere «quali giudizi porti il ministro della Guerra sui fatti denunciati in una corrispondenza da Pechino del 21 dicembre ultimo scorso, inserita nel Corriere della Sera di Milano del 7-8 corrente, e quali provvedimenti intenda adottare per l’accertamento di eventuali responsabilità». Chiesi era una vecchia conoscenza degli ambienti coloniali italiani ed aveva fama di convinto oppositore d’ogni politica africana ed ora cinese. Giornalista di quotidiani legati all’ambiente repubblicano, il modenese Chiesi aveva collaborato con Agostino Bertani per stilare la famosa inchiesta agraria del 1872 ed era stato animatore e redattore de “L’Italia Irredenta”, de “Il Pensiero italiano” e della “Commedia Umana” nonché caporedattore de “Il Popolo”, “Il Crepuscolo” e “L’Epoca” solo per citare alcuni dei giornali repubblicani più importanti. Chiesi s’era inoltre segnalato come uno dei capi della corrente repubblicana federalista ed internazionalista con l’opuscolo “La democrazia fossile e il partito repubblicano” (1878) nel quale attaccava i mazziniani per le loro tesi unitarie e spiritualiste cui contrapponeva il positivismo e l’internazionalismo oltre che un rafforzamento della collaborazione con i socialisti. Già nel 1885, nel momento in cui le truppe del colonnello Tancredi Saletta mettevano piede a Massaua, Gustavo Chiesi aveva scritto su “L’Epoca” del 6-7 febbraio l’articolo “Un errore” nel quale attaccava i deputati dell’Estrema Sinistra che il mese prima avevano votato un ordine del giorno nel quale non venivano disconosciuti i principi economici e politici del colonialismo italiano ma, soprattutto, veniva accettato il postulato sull’opera di civilizzazione che l’Italia avrebbe dovuto compiere in Africa nel nome degli alti principi risorgimentali. Nel 1887 si era invece recato in Africa in qualità di corrispondente de “Il Secolo” – il quotidiano milanese diretto da Ernesto Teodoro Moneta – per seguire da vicino le operazioni del generale Alessandro Asinari di San Marzano dopo la sconfitta di Dogali, facendo la conoscenza, a Massaua, di Coriolano Ponza di San Martino, all’epoca colonnello comandante del 1° Reggimento Cacciatori d’Africa. Nel corso della sua permanenza in Africa Gustavo Chiesi rafforzò la sua già forte avversione al colonialismo denunciando nei suoi articoli (poi raccolti nel 1888 nel libro “Otto mesi d’Africa” scritto assieme al radicale Guido Norsa) l’impreparazione militare e gli errori strategici dei comandanti italiani pagati poi con i sacrifici della truppa. Invero un giudizio troppo severo ed inficiato dai pregiudizi ideologici visto che la spedizione del generale Asinari di San Marzano si concluse con il raggiungimento degli obiettivi pur senza arrivare allo scontro decisivo con le truppe abissine del negus Giovanni IV che si ritirarono a causa delle difficoltà logistiche.
Vista la sua esperienza diretta in Africa, nel panorama politico e giornalistico italiano Chiesi era considerato un esperto di questioni coloniali e sembrò quasi naturale che fosse lui a prendere spunto dall’articolo di Barzini per attaccare dai banchi dell’estrema sinistra repubblicana il governo della sinistra liberal-democratica di Giuseppe Zanardelli e, soprattutto, il militare “di destra prestato alla sinistra monarchica” Coriolano Ponza di San Martino. Lo scontro tra il ministro monarchico e militare di carriera e il deputato repubblicano ed antimilitarista avvenne nella seduta dell’11 marzo 1901 quando il ministro della Guerra propose di discutere immediatamente l’interpellanza di Chiesi solo annunciata ma non ancora ufficialmente presentata. Il deputato acconsentì e, dopo una lunga discussione tra i deputati socialisti ed il ministro delle Poste e Telegrafi Tancredi Galimberti sull’interruzione della linea telefonica milanese, arrivò il turno delle questioni cinesi.
Disse Chiesi: «[…] Lo scopo della interpellanza è duplice: primo, di conoscere l’opinione dell’onorevole ministro sui fatti denunziati dal corrispondente di Pechino del “Corriere della Sera” […] e secondo, di accertare le responsabilità relative a quei fatti. I fatti denunziati sono gravissimi, e purtroppo non sono nuovi nella storia delle nostre spedizioni militari, in paese e fuori. Quei fatti dimostrano una volta di più la leggerezza e la impreparazione con la quale dal Governo, e per esso dal Ministero responsabile, si avventurano i nostri soldati nei più lontani paesi e nelle più difficili imprese. Si ripete oggi in Cina quello che è avvenuto in maggiori proporzioni e, fatalmente, nelle varie spedizioni nell’Eritrea, compresa quella comandata dal generale di San Marzano nel 1887-1888, durante la quale ebbi l’onore di conoscere il generale Ponza di San Martino. Egli ricorderà che anche allora occorsero quattro mesi, per difetto di servizi logistici, a percorrere il tratto di trentadue chilometri di deserto, sgombri affatto da qualunque nemico che dividono Massaua da Sahati! I fatti denunciati dal corrispondente del “Corriere della Sera” li riassumo brevemente: […] Un altro fatto deplorevole della spedizione, ma che non riguarda la responsabilità diretta del Governo, è la mancanza di vettovaglie per cui i soldati hanno dovuto fare i razziatori. Questi fatti di razzie e di saccheggi furono non solo narrati dal “Corriere della Sera”, ma descritti nei giornali inglesi e tedeschi […] La mancanza di dei mezzi di trasporto dei soldati feriti e malati è un altro grave incoveniente […] Vi è poi la deficienza, per non dire l’assoluta mancanza di vestiario. Mentre laggiù si ebbero temperature di quindici, diciotto ed anche ventun gradi sotto zero, i nostri soldati rimasero a lungo sprovvisti di cappotti e di pellicce, quando gli alleati e gli stessi cinesi e i giapponesi ne erano ben forniti […] mentre i soldati di tutte le nazioni erano ben coperti ed impellicciati, i nostri bersaglieri erano, come dice il corrispondente del “Corriere della Sera”, in “bella vita” non solo, ma cogli abiti così deteriorati da fare assolutamente “vergogna”. E questo, notate, lo dice un giornale che pur è amico devoto delle istituzioni e dell’esercito».
Le dichiarazioni di Chiesi provocarono un brusio sordo e costante dell’Aula, specialmente quando il repubblicano tornò sulla questione delle razzie e dei saccheggi discussa il mese precedente e conclusasi, in sostanza, con un nulla di fatto tra maggioranza ed opposizione. Certo è che apostrofare come “saccheggiatori” i soldati del Corpo di spedizione non poteva essere considerata un’accusa rivolta esclusivamente alle truppe di stanza in Cina ma a tutto il Regio Esercito, dal ministro della Guerra all’ultimo fantaccino. Ecco perché a Ponza di San Martino era richiesto un intervento particolarmente forte per rispondere a Chiesi e, quindi, al resto dell’opposizione.
Il ministro della Guerra dichiarò: «Prima di entrare in merito circa gli apprezzamenti […] mi sia lecito di rettificare alcune citazioni meno che esatte che ho udite, e che ho lette nel “Corriere della Sera” e in altri giornali. Prima di tutto si è parlato dello sbarco di Taku. Noi avevamo in Cina una squadra di sette bastimenti, e quando la nostra spedizione partì, non era ancora ben deciso se dovesse essere diretta a Taku, oppure a Shangai; anzi, si propendeva da alcuno per quest’ultima località. Ad ogni modo spettava al comandante della squadra provvedere per lo sbarco. Io non ho avuto i rapporti di questo comandante, perché egli dipende dal ministro della Marina […] ma suppongo che trattandosi di uno sbarco di poca gente, perché pochi soldati noi abbiamo mandato in Cina, egli abbia ritenuto sufficienti i mezzi di sbarco di cui poteva disporre nella squadra, oltre a quelli che appartenevano ai bastimenti da trasporto. Voi sapete che ogni bastimento da trasporto porta con sé una barca a vapore, una lancia e due imbarcazioni più piccole, e così pure fanno i bastimenti da guerra. Ma più che dai mezzi di sbarco, la difficoltà proveniva dalla natura della spiaggia, poco profonda, la quale obbligava a discendere nelle imbarcazioni alla distanza di quattordici miglia dalla costa. […] Certo sarebbe occorso un rimorchiatore (che era stato comprato ndr) ed un pontone, ed anche la costruzione di un tratto di banchina destinata esclusivamente a noi per lo scarico. Ma gli altri erano arrivati prima di noi ed avevano già occupata la riva, cosicché gli inglesi ci prestarono un tratto della parte loro. Si fece, è vero, largo uso delle giunche noleggiate sul posto, le quali sono però migliori di quanto ha detto l’onorevole Chiesi, per mezzo di esse si fa gran parte della navigazione sulla costa, sul Pei-ho e sugli altri fiumi. Le giunghe hanno sofferto nel passaggio della barra del Pei-ho, specialmente per il tempo non buono, ma questi sono accidenti che possono verificarsi per qualunque spedizione […] Per i trasporti per terra noi siamo i soli che abbiano pensato a provvederli dall’Europa. I tedeschi hanno cercati i cavalli dappertutto, al Capo ed in Australia, e li hanno fatti sbarcare laggiù dopo i soldati. Noi invece con i nostri uomini abbiamo mandato con i nostri uomini 173 quadrupedi. […] I nostri provvedimenti hanno avuto le lodi di tutti, salvo le nostre naturalmente, che ci mancano sempre».
Poiché Barzini nel suo articolo aveva anche biasimato la composizione del contingente italiano giudicandolo sia poco adatto a condurre grandi operazioni sia numericamente inferiore rispetto a quello delle altre potenze e dunque inadatto a garantire il prestigio nazionale, Ponza di San Martino tornò, nel corso della risposta all’interpellanza dell’onorevole Chiesi, anche a parlare della struttura del Corpo di Spedizione evidenziandone gli aspetti militari e, in un certo senso, rifilando una stoccata anche a quelli che, tra i suoi colleghi di gabinetto, al momento di decidere se e come inviare truppe italiane in Cina si erano soffermati sul mero dato numerico escludendo aprioristicamente quello qualitativo: «Quando fu decisa la spedizione, risultava dalle statistiche che gli italiani (tranne quelli addetti alla legazione) erano in Cina in proporzione ridicola, cioè solo 47. Ma pure ammettendo che fossero di più, noi non abbiamo voluto fare una spedizione in grande, ma abbiamo pensato solo di avere un Corpo che sostituisse la fanteria di marina che gli altri Stati hanno e che noi non abbiamo. Alcuni ci hanno censurato perché non abbiamo inviato quattro battaglioni; certo quattro è più di due, ma allora sei è più di quattro; ora, di tutte queste cifre, la sola che abbia senso è il due, poiché due battaglioni corrispondono precisamente al contingente che avrebbe avuto la fanteria di marina della squadra, se noi la possedessimo. Tale Corpo era destinato non a fare una campagna come credono alcuni che ci censurano per l’insufficienza dei servizi logistici, ma per occupare punti determinati per difendere la legazione. Non abbiamo quindi provvisto a quell’allestimento he si dà ad un Corpo destinato alle grandi operazioni, e non abbiamo neanche inviato una batteria ma solo quattro piccole mitragliere, fornendo il Corpo di bardature e di timonelle per poter sbarcare i pezzi da sette della Marina; la batteria così composta quando ha dovuto far fuoco ha prestato un ottimo servizio. […] In quanto alle ambulanze sta il fatto che non le abbiamo mandate, ma abbiamo inviato tutto l’occorrente per l’impianto di un ospedale di campagna e si ha così una dotazione di materiale sanitario che è proporzionalmente doppio di quello che si darebbe ad un Corpo uguale in Europa. […] Se il Comandante del Corpo speciale avesse riconosciuta l’utilità dell’invio dei carri di ambulanza e la possibilità d’impiegarli ne avrebbe fatto richiesta ed io li avrei certamente mandati: invece non abbiamo mai avuto tale richiesta da nessuno». Effettivamente durante il ciclo d’operazioni del settembre-novembre 1900, quando il Corpo di spedizione italiano partecipò sia alla conquista dei forti di Chan-ai-Tuan che all’occupazione di Cu-nan-Tsien non si ebbero problemi di tipo logistico né prettamente militare, anzi, il gruppo d’artiglieria composto da mitragliere e cannoncini diede ottima prova. Il caso della conquista di Cu-nan-Tsien è emblematico a tal proposito: avendo i francesi occupato la cittadina di Pao-ting, a sud di Pechino, la cui occupazione era stata promessa a italiani e tedeschi dal comandante generale della forza multinazionale, il feldmaresciallo Alfred Von Waldersee, il colonnello Garioni si ritenne autorizzato a dare una lezione all’arroganza francese, raggiungendo nottetempo, con 330 uomini ed in testa alle truppe, la cittadina di Cu-nan-Tsien, che proprio in quel momento era infruttuosamente assediata dalle truppe di Parigi. Non visti, i membri del Corpo di spedizione Italiano penetrarono in città, sbaragliando i cinesi e issando il tricolore al centro della piazza, di fronte allo sbigottimento dei francesi del generale Georges Nivelle. Le operazioni terrestri condotte dagli italiani in Cina erano il frutto di una fitta corrispondenza intercorsa tra maggio e luglio 1900 tra Ponza di San Martino e Garioni nella quale vennero analizzati i principali aspetti strategici e tattici della campagna cinese all’epoca in preparazione.
Poiché la campagna militare delle truppe alleate in Cina, eccezion fatta per le operazioni lungo la fascia costiera tra l’enclave di Tientsin e Pechino, dovette fare i conti con le rigide temperature invernali, la questione del vestiario delle truppe assunse una particolare importanza e fu giocoforza che Barzini ponesse l’attenzione proprio su quel punto così come aveva fatto Chiesi nell’interpellanza riportando fedelmente le parole del giornalista sull’inadeguatezza dell’equipaggiamento italiano. Il ministro della Guerra dovette quindi rispondere anche su questo dicendo: «[…] I nostri soldati partirono col loro completo equipaggiamento, il quale era formato anche da oggetti nuovi: chi aveva oggetti vecchi li aveva lasciati e gliene erano stati distribuiti degli altri; dunque mantellina da bersagliere, elmetto coloniale, e poi un cappotto ed un pastrano per tutti, compresi i bersaglieri i quali non lo portano normalmente; tutti avevano un cappuccio di lana di quelli che si portano sulle Alpi, gambali di lana modello Val d’Aosta, calze di lana, guantoni di flanella e poi un rifornimento di tutti i materiali di equipaggiamento, giubbe e pantaloni di panno, farsetti a maglia e via dicendo. […] L’ammiraglio Candiani telegrafava poi da Pechino il 7 novembre: “Provvistoci di pellicce sufficientemente” ed il colonnello Garioni nella sua relazione del 4 dicembre scriveva letteralmente così: “Le pellicce ordinate pei militari di truppa a Shangai corrispondono assai bene allo scopo perché si possono portare comodamente sotto il cappotto. Ad ogni soldato viene

Bersaglieri italiani alla Grande Muraglia durante la spedizione di Calgan

Bersaglieri italiani alla Grande Muraglia durante la spedizione di Calgan

distribuita una pelliccia che serve da copertura da letto. Dai rapporti infine risulta che dopo la spedizione di Calgan (città cinese nella regione di Ho-pei ove si congiunge la Grande Muraglia, teatro delle operazioni congiunte alleate, alla quale parteciparono anche i bersaglieri italiani. Era un centro commerciale di grande importanza, deposito di tè spedito in Siberia con l’impiego di mezzo milione di cammelli, nonché centro di produzione di pellicce tipo “Kalgan” prodotte con lana tibetana e mongola. Ndr) si sono avute altre pellicce requisite, in modo che ora i soldati ne hanno tutte due. Adattando poi delle strisce di pelliccia al fez si è ottenuto un copricapo molto opportuno perché permette di tenere anche il cappuccio. Questa è una copertura sui generis; non so se sia bella ma mi dicono sia molto comoda. […] Il colonnello Garioni ha risposto sempre di essere provvisto per tutto l’inverno ed ha chiesto soltanto dei cappotti, dei mantelli e delle scarpe pel caso si dovesse andare oltre la primavera […] ed i rifornimenti gli sono stati spediti».
Per quanto invece riguardava la questione del rifornimento viveri, che per forza di cose richiamava anche lo spinoso caso dei soldati “razziatori”, Ponza di San Martino fu netto nel difendere l’onore del Corpo di spedizione e di tutto il Regio Esercito, nonché il suo operato come ministro della Guerra: «Prendendo argomento dalle larghe provviste di viveri che il nostro contingente ha potuto fare sul luogo mediante regolari requisizioni, si vorrebbe far credere che siano ad esso mancati i necessari rifornimenti dall’Italia, e che i nostri soldati siano stati quasi costretti ad appropriarsi indebitamente di derrate ed animali da macello appartenenti ai cinesi per non soffrire la fame. Tutto ciò io posso assolutamente smentire nel modo più formale. Io ho già citato qui alla Camera la lettera del del generale Dorward nella quale egli fa grandi elogi dei nostri soldati. Egli comandava la spedizione mista a Pao-ting ed in quella lettera, che ho fatto stampare anche sui giornali, egli si mostra ammiratore dei nostri soldati, di cui riconosce l’alto spirito militare e sopra tutto la disciplina, dicendo che non si sono mai abbandonati ad atti di saccheggio. Risulta poi che gli stessi cinesi delle località occupate sono stati riconoscenti alle nostre truppe per la loro umanità, talmente che fu domandata spesse volte l’occupazione con le nostre truppe a preferenza delle altre. […] Appena giunti laggiù si iniziarono gli acquisti in modo che si arrivò a formare un magazzino di sussistenza il quale doveva servire per il vitto di tutto l’inverno, dopo di che fu dato ordine che si sospendessero le compere in attesa degli avvenimenti. Ora io mi riservo di fare ricominciare le compere, tanto più che le comunicazioni si sono riaperte. Talune provviste, come la pasta, l’olio ed il vino, che è difficile acquistare sul posto, furono spedite dall’Italia tanto per l’esercito che per la marina, e già due volte, di queste si sono spediti i rifornimenti. Ora, le spedizioni sono state sospese; ed il colonnello Garioni stesso in una lettera che porta la data del 2 gennaio, attesta d’essere esuberatamente fornito. Da quanto ho detto finora, credo che la mia opinione venga fuori chiaramente. […] Il vero termometro dello stato delle truppe è l’ospedale; e posso dire che noi abbiamo all’ospedale meno gente di quella che vi abbiano altre nazioni. Se siamo abituati a far con poco meglio per noi. E questa abitudine non è limitata soltanto ai soldati che vengono dalla classe operaia e dalla classe rurale; ma si estende anche ai nostri ufficiali. Posso anzi dire che i nostri ufficiali danno ai loro soldati, in fatto di sobrietà, l’esempio. Io ho passato qualche tempo presso un reggimento inglese, dove l’indigeno tirava i pankas per far vento ai soldati. A noi questo non è mai venuto in mente; come non ci è mai venuto in mente, quando si faceva una spedizione di pochi giorni, di portare la tenda. In questi casi appena giù il sole, un segnale di tromba, e tutti a terra con le spalle nella sabbia. E, come vedete, non ne abbiamo sofferto. Concludendo, la mia opinione è questa: di continuare a fare esattamente come si è fatto ora. In quanto alle responsabilità, questa è mia: l’allestimento l’ho fatto io. Io, da me, non mi posso giudicare; dunque giudicatemi voi».
L’intervento del ministro della Guerra si concluse tra gli applausi della maggioranza ed anche dell’opposizione conservatrice. La grande efficienza ed il coraggio mostrato dalle truppe del colonnello Garioni in Cina avevano in fondo risollevato la reputazione dell’Esercito dopo il disastro di Adua e la repressione dei moti del 1898 mettendo in

Colonnello Coriolano Ponza di San Martino in uniforme da comandante del 7 Reggimento Bersaglieri di stanza in Africa (1887)

Colonnello Coriolano Ponza di San Martino in uniforme da comandante del 7 Reggimento Bersaglieri di stanza in Africa (1887)

evidenza che i bilanci stilati dal generale Coriolano Ponza di San Martino, nell’ottica di una riforma in chiave qualitativa della forza armata terrestre, stavano dando i risultati sperati dopo anni di contrazione delle spese militari e, di conseguenza, dell’efficienza. Certo, la campagna cinese degli italiani aveva risentito, per quel che riguarda la fase decisionale e prettamente politica, delle ristrettezze finanziarie e dei tagli radicali imposti al bilancio statale dai governi post-crispini di Starabba di Rudinì, Pelloux, Saracco e Zanardelli. I ministri militari s’erano quindi visti costretti ad approntare, con magre risorse, la spedizione più lontana dalla madrepatria che le Forze Armate avessero mai affrontato nella loro storia e con i risultati più che sufficienti riconosciuti anche da comandanti e politici stranieri che qualche anno prima avrebbero dubitato delle capacità militari del giovane Regno d’Italia, l’ultima delle grandi potenze.
Anche se Gustavo Chiesi non si dichiarò soddisfatto delle risposte ricevute dal ministro, dovette comunque riconoscere che, se alcune deficienze sul campo c’erano state, queste erano dovute appunto alle scarse risorse destinate alle spese militari, tant’è vero che per finanziare la campagna cinese nei mesi successivi il governo Zanardelli dovette presentare in Parlamento un Disegno di Legge avente come oggetto “Approvazione dell’assegnazione di lire 10.200.000 da inscriversi nei bilanci dei Ministeri della Guerra e della Marina per l’esercizio finanziario 1901-1902 per le spese della spedizione militare in Cina” (approvato a larga maggioranza il 28 maggio 1901). Uno stanziamento così ingente per il Corpo di spedizione in Cina si era reso necessario dopo quello iniziale di 14.824.700 lire richiesto da Ponza di San Martino (ddl 136 bis approvato il 15 giugno 1901) nell’ambito della discussione generale sul bilancio del Ministero degli Esteri e sui fondi assegnati al Corpo di spedizione a Candia proprio per fronteggiare le difficoltà logistiche. Il rifornimento di armi per le truppe impegnate in Cina era invece stato coperto con le spese ordinarie per l’armamento del Ministero della Guerra, a dimostrazione proprio del fatto che la questione logistico-organizzativa fu quella che più preoccupò, dal punto di vista politico-amministrativo il generale Ponza di San Martino.
Nonostante Gustavo Chiesi si fosse ripromesso di tornare, con una più ampia mole di dati a disposizione, sul tema della spedizione cinese, la sconfitta politica subita apparve subito evidente e dovette abbandonare i suoi propositi. Il generale Ponza di San Martino è una figura sulla quale allo stato attuale mancano studi analitici ma che ha rappresentato sia per quel che riguarda la politica coloniale che per la politica militare più generale del Paese un innovatore. Basti pensare per il primo aspetto non solo alla parte fondamentale rivestita nella pianificazione della campagna militare in Cina (non solo per quel che concerne l’aspetto amministrativo ministeriale) ma anche all’opera di ristrutturazione e potenziamento del Regio Corpo Truppe Coloniali in Africa in una fase in cui le scelte coloniali dei governi italiani viravano verso il “raccoglimento” e la “sosta” successiva ad Abba Garima. Per il secondo aspetto è fondamentale sottolineare la riforma dell’ordinamento giudiziario militare, il riordinamento delle carriere degli ufficiali (tema che aveva tenuto banco nelle discussioni interne all’Esercito e sulla stampa militare negli anni precedenti) ed il rafforzamento delle prerogative del capo di Stato Maggiore che si concretizzerà qualche anno dopo con i decreti del 1906 e 1908 che ne fisseranno definitivamente i compiti.

Il generale Coriolano Ponza di San Martino (al centro) accoglie le truppe del Corpo di Spedizione al rientro dalla Cina (1902)

Il generale Coriolano Ponza di San Martino (al centro) accoglie le truppe del Corpo di Spedizione al rientro dalla Cina (1902)

L’analisi dei dibattiti parlamentari relativi alla rivolta dei boxer è importante per tracciare una linea di demarcazione tra quella che sembrava essere una fase destinata a durare del colonialismo italiano, votata all’imperialismo difensivo caro ai settori dell’industria ma che, in sostanza, rappresentava ancora una forma di “imperialismo arretrato” e di tipo economico proprio delle piccole potenze e che invece con l’impegno militare diretto in Cina fu archiviata per essere sostituita da un modello “neo-crispino” di tipo politico e più attento allo sviluppo di una politica di potenza per Roma. Interessante vedere come la perdita d’interesse per le questioni africane portò l’attenzione del dibattito sull’Estremo Oriente ma che i postulati politici elaborati per la Cina – in una fase intermedia e dopotutto “minore” dell’imperialismo italiano – furono poi validi anche per il definitivo “salto in avanti” della nostra politica coloniale sia nel Corno d’Africa che nel Mediterraneo.

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di Filippo Del Monte

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

– Camera dei Deputati, Resoconto stenografico 2a Tornata di giovedì 6 dicembre 1900, Legislatura XXI, 1a Sessione, Discussioni, 1900
– Camera dei Deputati, Resoconto stenografico Tornata di lunedì 11 marzo 1901, Legislatura XXI, 1a Sessione, Discussioni, 1900
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– F. Del Monte, Il Peking Syndicate e l’avventurismo industriale italiano in Cina tra la crisi di San Mun e la rivolta dei Boxer, in “L’Italia Coloniale”, 7 novembre 2019
– F. Del Monte, Capitano Pietro Verri eroe del colonialismo italiano, in “L’Italia Coloniale”, 7 marzo 2019
– L. Sunseri, Creta 1897. Una missione “ONU” antelitteram a guida italiana, in “L’Italia Coloniale”, 8 luglio 2019
– L. Goglia e F. Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Biblioteca Universale Laterza, 2008
– R. Catellani e G. Stella, Soldati d’Africa. Storia del colonialismo italiano e delle uniformi per le Truppe d’Africa del Regio Esercito, Vol. I (1885-1896), Ermanno Albertelli Editore, 2002
– (a cura di) Ministero degli Esteri, Documenti diplomatici italiani. Terza serie (1896-1907), I-V, Roma 1953-1979
– M. Malaguti, Estate 1900: L’Italia umilia la Cina (e beffa la Francia), in “Progetto Prometeo”, 2 aprile 2020
– N. Labanca, Il generale Cesare Ricotti e la politica militare italiana, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 1986

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