Addi Ugri è il capoluogo del Commissariato coloniale del Seraè in Eritrea, a pochi chilometri dal confine con l’Impero Etiopico. Il suo territorio è attraversato da una mulattiera che porta alla frontiera e da una carrozzabile che la collega alle vie di transito principali della colonia primigenia. Poche capanne di paglia e fango e tre grandi magazzini in legno dipinto di bianco sono le uniche costruzioni della zona. Nel 1895 il generale Oreste Baratieri, governatore dell’Eritrea e comandante del Corpo Speciale d’Africa con grandi ambizioni da conquistatore, ha fatto erigere sulla collina che domina la città un forte in cui si trovano pochi ascari e pochissimi soldati metropolitani. Commissario coloniale del Seraè, dunque padrone indiscusso di Addi Ugri, è il sottotenente di fanteria Pietro Verri. Prima di essere nominato commissario coloniale, questo giovane ufficiale era stato costretto ad interrompere gli studi a causa delle condizioni disagiate della famiglia, si era arruolato volontario nel Regio Esercito ed era arrivato a ricoprire il grado di sergente prima di riuscire a passare gli esami per diventare sottotenente nel 1894. Le sue qualità lo avevano posto all’attenzione dell’Ufficio I dello Stato Maggiore, il nascente servizio informazioni dell’esercito. Questo spiega la presenza di un sottotenente fresco di nomina come commissario al confine con l’Etiopia. Addi Ugri non è certo famosa per le sue ricchezze, né vanta una posizione militare invidiabile, infatti se il Negus Menelik decidesse di invadere l’Eritrea, il Seraè verrebbe occupato in poco tempo ed i difensori sarebbero spacciati. Però questa provincia è anche un osservatorio ideale – per chi è capace di osservare si intende – da sfruttare. Verri è una di quelle menti fresche che servono a Baratieri prima ed al generale Baldissera poi per carpire informazioni e dunque anticipare le mosse degli etiopi.
La presenza di Verri ad Addi Ugri è legata a quel periodo di crisi nelle colonie italiane successivo al disastro di Adua. Se infatti in Italia si dibatte se restare o meno in Africa, laggiù, sulle ambe arse dal sole, il problema più stringente è evitare l’invasione etiopica. Dietro la copertura della routine quotidiana della guarnigione, fatta di ispezioni, riviste, telegrammi e prolissi rapporti da inviare al comando di Asmara, si cela la vera attività del sottotenente Verri che è quella di cavalcare fino alla frontiera etiopica e stilare relazioni top secret sulla situazione. Contrabbando, eventuali sconfinamenti da parte delle truppe di qualche ràs troppo esuberante e, perché no, notizie sulla politica del vicino impero salomonide. I rapporti di Verri sono particolarmente utili al generale Antonio Baldissera al momento di ideare una nuova strategia coloniale italiana e di inaugurare una politica di (falso) buon vicinato con l’Etiopia. Nel 1898 Verri viene richiamato in Italia con la promozione al grado di tenente nella tasca della giubba bianca da ufficiale coloniale. Dal 1898 al 1900 frequenta la Scuola di Guerra di Firenze imparando a parlare fluentemente l’inglese, il tedesco, l’arabo e l’amarico, affinando inoltre le proprie conoscenze in matematica superiore, geografia, geologia e geodesia. Quando all’inizio del 1900 viene scelto dal colonnello Garioni – comandante designato del costituendo Corpo di Spedizione italiano in Cina – come addetto all’ufficio informazioni, il tenente Pietro Verri è un ufficiale con una formazione completa che spazia dalla politica alle scienze applicate.
Il Corpo di Spedizione italiano in Cina parte da Napoli il 19 luglio arrivando a Porto Said il 23 luglio, facendo poi tappa ad Aden il 29, Singapore dal 12 al 14 agosto, per giungere a Taku il 29 dello stesso mese. A quel punto le truppe di Garioni affrontano un viaggio di 150 chilometri in treno che li porta a Pechino. La situazione nella capitale del Celeste Impero è, nonostante la presenza del contingente internazionale che ha liberato il quartiere delle Legazioni dall’assedio cinese, decisamente caotica. La rappresaglia degli occidentali nei confronti dei soldati regolari, dei “boxer” e dei civili cinesi è efferata; vi sono esecuzioni in pubblica piazza e saccheggi alle pagode e perfino nelle abitazioni private. Il contingente italiano ha il compito di presidiare il quartiere attorno alla caserma Huang Tsun, zona nella quale la rappresaglia non risulta così dura. Gli italiani infatti tentano di mantenere l’ordine come possono nella difficile situazione. Il comandante in capo delle truppe alleate, il feldmaresciallo tedesco von Waldersee, affida al Corpo di Spedizione italiano il compito di schiacciare le sacche di resistenza nell’entroterra. I fanti italiani durante gli scontri nell’interno, dove la temperatura arriva a toccare i 20 gradi sottozero, si fanno notare per l’usanza di coprire le proprie uniformi coloniali di tela con dei pastrani multicolori di fabbricazione cinese.
Verri partecipa a tutte le battaglie di questa campagna: Il 2 settembre è a Chan-ai-Tuan alla conquista dei forti tenuti dalle truppe regolari cinesi. Il 2 ed il 3 novembre 1900, presso il villaggio di Cu-Nan-Tsien, al comando di una compagnia di fanti, il tenente Verri ottiene la Medaglia d’argento al Valore Militare. Gli ultimi irriducibili “boxer” hanno occupato l’abitato e non hanno intenzione di farsi sopraffare, sanno bene che il prezzo da pagare per la sconfitta è la morte. Gli italiani sono stanchi, dopo marce forzate sotto la neve si ritrovano costretti ad un combattimento catapecchia per catapecchia. Verri si distingue durante lo scontro portando all’assalto con la sciabola sguainata la propria compagnia di soldati dai buffi pastrani contro le forti postazioni nemiche. Tornato in Patria nel 1901 Verri viene promosso capitano e conclude gli studi alla Scuola di Guerra. Fino al 1907 sperimenta la vita dell’ufficiale di guarnigione prima a Cuneo e dopo a Genova dove nel 1904 riceve un encomio solenne per essersi distinto nella repressione di uno sciopero. Quella del servizio d’ordine pubblico è una triste parentesi che tutti gli ufficiali italiani della Belle Epoque hanno nel proprio curriculum e Verri non è da meno. Nel 1907 però torna in Eritrea e si dedica a studi che vengono inviati all’Istituto Geografico Militare. Verri è un ufficiale coloniale, la vita da girovago delle caserme in Italia gli sta stretta, preferisce l’aria aperta del Corno d’Africa. I suoi studi risultano essere particolarmente utili al governo della colonia d’Eritrea che sta avviando, proprio in quel periodo, le prime grandi opere di modernizzazione. Se l’idea alla base del colonialismo italiano è quella di una nuova civilizzazione “romana”, Verri ne è sicuramente uno degli interpreti principali. La colonia italiana non è più quella terra desolata che Verri, forte della sua esperienza ad Addi Ugri, ricordava. Agli occhi dell’ufficiale, durante le sue lunghe camminate alla ricerca di risorse naturali, e di zone inesplorate, l’Eritrea sembra essersi trasformata. Nonostante dopo la sconfitta di Adua a Roma si sia deciso di allontanare i militari dai ruoli di potere nelle colonie sostituendoli con funzionari civili del Ministero degli Esteri, gli uomini con le stellette restano importanti punti di riferimento sia per la costruzione di infrastrutture essenziali, sia per la gestione politico-amministrativa di questo pezzo d’Italia in terra d’Africa. Il governo, sull’onda della politica di potenza che vorrebbe inaugurare, ha rivolto nuovamente la sua attenzione al Mar Rosso e necessita quindi di una testa di ponte attrezzata per future imprese. La colonia primigenia si trasforma quindi in un gigantesco cantiere; certo non è la perla del piccolo impero italiano ma ambisce a diventarlo. Verri in Eritrea però non è solo responsabile degli studi dell’Istituto Geografico Militare ma anche ufficiale del servizio segreto; da Assab tiene d’occhio l’altra sponda del Mar Rosso, quella Penisola arabica in cui già risuonano i canti di rivolta. Aden, possedimento inglese tra i più ambiti, il grande porto della Penisola arabica che si trova proprio di fronte al Corno d’Africa, nel punto in cui quei due lembi di terra sembrano baciarsi come due amanti appassionati. Aden è la prossima destinazione del capitano Pietro Verri che vi arriva, sotto falso nome ed in abiti borghesi, il 1 dicembre del 1909. Dall’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore gli è stato chiesto di allacciare i contatti con i capitribù arabi, del resto anche l’Italia vuole approfittare del prossimo crollo dell’Impero Ottomano – dato per spacciato nonostante le rassicurazioni di tutte le Potenze europee – pensando di costruire una sua enclave in Arabia, cosicché né i francesi né i britannici possano fare un solo boccone di quel grande deserto che sotto la sabbia nasconde il prezioso oro nero. In questo nuovo Secolo l’ossigeno degli imperi si chiama petrolio e dal possesso dei giacimenti petroliferi o dei territori dove potrebbero scoprirsene di nuovi dipende la sorte delle nazioni. Questo lo sanno perfino i politici d’impronta giolittiana, apparentemente senza ambizioni. Poi c’è un problema d’ordine prettamente militare: un’Arabia interamente in mano a Potenze nemiche costituisce una testa di ponte per eventuali attacchi al piccolo e mal difeso impero coloniale italiano. Far capire agli arabi che Roma sarebbe una scelta migliore rispetto ad Istanbul è la prima mossa, nessuno meglio di un ufficiale con ampia padronanza dell’arabo e dalla fine mente politica come Pietro Verri può portare a termine questa delicata missione. Quando il capitano arriva ad Aden la città pullula di agenti segreti di ogni nazione e sia la polizia militare che i servizi informativi inglesi non riescono a scoperchiare la fitta rete dello spionaggio che sta via via accalappiando la città. Ma Aden per Verri non è altro che un punto d’appoggio, un luogo dove scambiare qualche conversazione maligna con altri spioni, con gli alti papaveri della colonia britannica, con qualche uomo d’affari troppo loquace. La vera meta è l’entroterra della penisola arabica, nel bel mezzo del grande deserto dove la sovranità ottomana è fragile ed i veri padroni sono gli sceicchi beduini. Il capitano italiano prende contatto con gli emissari delle tribù, promette un concreto appoggio dell’Italia in caso di ribellione ma, allo stesso tempo, chiede come controassicurazione la fedeltà degli arabi qualora Roma facesse guerra alla Sublime Porta. Somalia ed Eritrea sarebbero direttamente minacciate dalle forze ottomane nel Mar Rosso se l’Arabia restasse mansueta ed agli ordini del sultano. Manca un tassello fondamentale al mosaico di Pietro Verri però: per comprare il sostegno delle tribù beduine non bastano le rassicurazioni di un oscuro agente segreto italiano; gli arabi hanno imparato a diffidare delle promesse occidentali e vogliono una contropartita. Verri garantisce così che l’Italia è disposta ad armare la mano dei rivoltosi. Casse colme di fucili Carcano Mod. 1891 si trovano già ad Assab pronte per essere caricate sui sambuchi e poi portate a destinazione dalle carovane di contrabbandieri. Pietro Verri a dorso di cammello si spinge in profondità nel deserto arabico, studia i meccanismi difensivi e di mobilitazione militare dei turchi nella regione, stima le risorse del suolo e del sottosuolo ed amplia la sua lista personale di contatti, la stessa che verrà poi trasmessa al comando militare di Asmara ed ai governatori di Somalia ed Eritrea, chiusa in polverosi cassetti e tirata fuori al momento della guerra contro gli ottomani. Le attività di Pietro Verri in Arabia sono tenute nel più stretto riserbo e conosciute da pochi ufficiali dell’Ufficio I ma gli fanno ottenere la croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro.
Il 1 novembre 1910 viene richiamato in Italia per una missione altrettanto delicata ed in qualche modo collegata al lavoro svolto in Arabia: prossimo obiettivo la Libia ottomana. Tra l’aprile e l’agosto del 1911, quando la linea telegrafica tra il consolato italiano di Tripoli ed il Ministero degli Esteri a Roma si fa incandescente, il capitano Pietro Verri viene inviato nella capitale della Tripolitania ottomana sotto le mentite spoglie di un ispettore portuale per i preparativi di un ormai prossimo sbarco italiano. Le autorità turche ostacolano le attività commerciali italiane presenti in loco, in particolare denunciano e bloccano alcune compravendite di terreni da parte della filiale tripolina del Banco di Roma. La paura che aleggia nelle stanze dei bottoni turche, tanto a Costantinopoli quanto a Tripoli, è che l’Italia stia tentando di penetrare politicamente in Libia con la scusa degli investimenti commerciali. A passeggio lungo i moli, nel suk, nei ricevimenti serali tra diplomatici e uomini d’affari, il capitano di Stato Maggiore Verri, anzi, l’innocuo ispettore portuale Verri, riesce a prendere contatti, a farsi un’idea su quanto ci si stia avvicinando al punto di rottura tra Regno d’Italia ed Impero Ottomano. Qualche notabile arabo dalla lingua lunga si lascia sfuggire la notizia delle notizie: è probabile che le autorità turche a breve termine esproprieranno terreni ed immobili di proprietà di cittadini italiani e del Banco di Roma. L’obiettivo dichiarato è la banca capitolina espressione del grande capitale cattolico, quello occulto è direttamente il governo italiano di cui i turchi non si fidano. Convinta di avere l’appoggio incondizionato della Germania guglielmina e della Gran Bretagna, la Sublime Porta non arriva a capire che in realtà gli italiani sono pronti a giocare l’all in della guerra. Verri inizia allora a studiare le difese portuali di Tripoli, il sistema di forti e contrafforti che gli ottomani hanno progettato per impedire lo sbarco, o al più bloccare sulla riva gli eventuali assalitori. Schizzi sul taccuino, appunti presi velocemente, quasi in modo disordinato ma che poi servono, durante le ore notturne, quando vengono riordinati, a trovare la quadra della situazione. Quando il 1 luglio 1911 la corazzata “Panther” della Marina Imperiale Germanica appare al largo di Agadir scatenando la seconda crisi marocchina, il ministro degli Esteri italiano Antonino di San Giuliano capta la possibilità di aprirsi la strada verso Tripoli senza che le altre Potenze vedano minacciata l’integrità della Sublime Porta. Mantenendo una condotta ondivaga per tutta la durata della crisi Roma ottiene il “non nocet” francese e la neutralità benevola britannica e tedesca per un’azione italiana in Tripolitania e Cirenaica. Pietro Verri a questo punto è l’ufficiale italiano con la conoscenza più ampia della situazione libica e, contemporaneamente, l’unico in grado di guidare truppe alla conquista dei forti tripolini che ormai conosce a memoria. Durante una giornata di lavoro come tante l’ispettore portuale Verri sparisce dalla circolazione; lo si ritrova a Roma, capitano di Stato Maggiore a colloquio con un brillante ufficiale della Regia Marina, Umberto Cagni, conosciuto ai tempi della rivolta dei Boxer. Cagni ha ricevuto l’ordine di guidare i gruppi da sbarco della Regia Marina a Tripoli; a Verri viene affidato il comando dell’operazione. L’idea del capitano è quella di avanzare immediatamente contro i forti impegnando gli ottomani in furibonde mischie corpo a corpo con l’appoggio dal mare dei potenti cannoni delle navi. Il 29 settembre l’Italia dichiara guerra all’Impero Ottomano, le corazzate della Regia Marina sono già in movimento nelle acque del Mediterraneo. Il 5 ottobre il capitano Verri è il primo ufficiale italiano a mettere piede sul suolo libico. Lo sbarco della fanteria di marina è ostacolato dalle cannonate e dalle fucilate dei turchi; eppure i marinai riescono ad occupare i forti respingendo i difensori fuori città. Verri e Cagni schiantano le difese ottomane e resistono per una settimana al contrattacco aprendo la strada al grosso delle truppe italiane. Ai pozzi di Bu Meliana i “garibaldini del mare” di Verri si coprono d’onore: il nemico ha la superiorità numerica ed una maggiore mobilità dovuta alla presenza di bande irregolari di arabi a cavallo. Il capitano Verri rotea la sciabola chiamando a raccolta la sua compagnia, balza avanti a tutti seguito dai marinai con il morale rinvigorito dall’esempio di questo temerario ufficiale. Si lavora di sciabola e baionetta, il sangue scorre a fiumi nell’oasi assolata, tra i palmizi e la sabbia aurea. I turchi fuggono, poche centinaia di uomini hanno tenuto testa a migliaia di attaccanti intenzionati a ributtarli in mare. Il tricolore ancora sventola sulla torre più alta. Tripoli bel suol d’amor, Tripoli è italiana. La settimana dopo sbarcano a Tripoli le truppe di fanteria. Il capitano Verri torna allo Stato Maggiore come responsabile del servizio informazioni. Nei primi giorni di occupazione italiana i notabili tripolini fanno atto di sottomissione al generale Caneva, comandante generale delle truppe italiane in Tripolitania, poi i rapporti si logorano. Il parere del servizio informazioni è chiaro: gli arabi non hanno mai amato i turchi, hanno accolto le truppe italiane con indifferenza ma non con ostilità. Finché i rapporti con i loro capi resteranno cordiali dagli arabi non si devono temere reazioni violente, al primo malinteso diventeranno nostri nemici. Verri aveva avuto modo durante la sua missione sotto copertura di conoscere da vicino i sentimenti politici e la psicologia della popolazione araba. Presto si deve dare ragione a Verri. L’offensiva generale lanciata dai turchi ad ottobre contro i campi trincerati intorno a Tripoli fa temere il collasso del meccanismo difensivo italiano. Questo anche perché nelle retrovie i soldati italiani vengono aggrediti dai civili arabi. Molti sono i militari trovati sgozzati agli angoli delle strade tripoline. La notte è il momento peggiore, ad una pattuglia isolata di carabinieri o bersaglieri può capitare di trovare la morte dietro ogni angolo, dietro ogni pertugio, dentro ogni abitazione. Le donne nascondono coltelli tra le voluttuose rotondità dei seni, gli uomini vengono armati dagli agenti turchi rimasti in città, perfino i bambini possono trasformarsi in assassini. Davanti ci sparano i turchi, dietro ci accoltellano gli arabi. La situazione si fa tragica; tra il 22 ed il 23 ottobre i bersaglieri del valoroso colonnello Gustavo Fara vengono travolti sulla collina di Sciara Sciatt. I 290 bersaglieri prigionieri vengono ammassati nell’antico cimitero di Rebab e massacrati dai turchi. Quando i fanti dell’82° Reggimento riconquistano la collina trovano i loro commilitoni mutilati, straziati, fatti a pezzi. La rabbia è incontenibile, gli italiani iniziano i rastrellamenti e le fucilazioni contro la popolazione ormai ostile e dichiaratamente nemica. La stampa estera condanna, quella nazionale approva. Ai militari però non interessano i duelli della penna tra giornalisti ma solo portare a casa la vittoria. Il 26 ottobre i turchi attaccano con tutte le forze disponibili il settore sud-est della linea difensiva italiana all’altezza di Henni.
Il capitano Verri, in missione d’osservazione per conto dello Stato Maggiore, si trova proprio nelle trincee di Henni con i marinai comandati dal tenente di vascello Bella. Le truppe italiane sono investite da una tempesta di fuoco ma resistono. Il tentativo turco di schiacciare gli italiani verso l’abitato di Tripoli, dove non si possono utilizzare artiglierie di copertura, non riesce. A quel punto Verri si fa cedere il comando da Bella ed ordina il contrattacco. Gli italiani prendono l’iniziativa ed escono dalle trincee. Il capitano Pietro Verri si lancia all’assalto in testa ai suoi uomini. “Avanti Garibaldini del mare!” è il grido che si strozza in gola all’ufficiale che viene colpito prima al petto e dopo in fronte da due fucilate ben assestate. Il berretto con l’aquila dello Stato Maggiore è a terra insabbiato, un rivolo di sangue scende copioso dalla fronte di Verri, la sciabola è ancora stretta in pugno, la giubba grigioverde è invermigliata all’altezza del cuore. Il contrattacco italiano ha successo ed è l’inizio della riscossa che arriverà pochi giorni dopo con lo sbandamento generale dell’esercito ottomano proprio lì ad Henni. Pietro Verri verrà decorato di Medaglia d’oro al Valore Militare per il suo comportamento del 26 ottobre, ma di fatto quella medaglia rappresenta il compenso per la vita vissuta eroicamente di un ufficiale italiano le cui imprese sembrano essere frutto di un libro di avventure più che vicende reali figlie di tempi eroici.
di © Filippo Del Monte – Tutti i diritti riservati
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