di Guglielmo Evangelista
.

La cannoniera, con la sua economicità era perfetta per i servizi marittimi di routine (guardacoste, rifornimento dei fari, rilievi idrografici, trasporti vari) ma tutt’un altro conto era destreggiarsi nella politica internazionale.
Nel Mar Rosso, nell’Oceano Indiano e nel Mediterraneo l’Italia doveva avere a che fare con le altre potenze coloniali: se Belgio, Olanda, Portogallo, Germania e Spagna avevano interessi lontani, Francia e Gran Bretagna erano invece molto vicine. L’umile cannoniera faceva bene il suo lavoro lungo le coste, ma era tutt’altra cosa cercare di mettersi a livello di chi, oltremare, arrivò prima di noi e con più larghi mezzi.
Si sentì quindi l’esigenza di disporre di unità coloniali più grandi delle cannoniere che non solo fossero più adatte a difendere le colonie nella deprecabile ipotesi di un conflitto, ma soprattutto fossero adatte a mostrare con maggiore decoro il nostro paese.
Il primo esempio fu l’incrociatore Cristoforo Colombo del 1894, una nave nata vecchia e di scarso valore bellico, progettata solo per utilizzare la macchina, ancora ottima, di un preesistente incrociatore che portava lo stesso nome e che era stato demolito. Svolse un’intensa attività su tutti gli oceani del mondo ma solo nel 1901 fu impiegato in qualche operazione di polizia coloniale.

In relazione all’impiego previsto vennero classificati incrociatori coloniali e successivamente cannoniere. Il Campania operò intensamente nell’Oceano indiano durante le operazioni lungo le coste somale in uno scenario di sommosse e guerre civili nei sultanati locali: nel 1925 compì azioni di bombardamento a Bargal, Bender Meraio, presso capo Guardafui e ad Hordio dove i ribelli avevano distrutto le saline impiantate da pochi anni. Successivamente tornò in Italia venendo radiato nel 1937.
Il Basilicata fu una nave sfortunata perché nel 1919, diretta verso l’Eritrea che per gli impegni in patria imposti dalla prima guerra mondiale non aveva ancora potuto raggiungere, a causa dello scoppio di una caldaia si incendiò e affondò in acque basse presso Porto Said lamentando numerosi morti e feriti. Venne subito recuperata, ma i danni erano così estesi da non renderne conveniente la riparazione, così che fu demolita nel 1921.

Era una nave dal profilo elegante, anche se poco “militare” e come si conveniva ad ogni nave coloniale aveva grande autonomia e un’ ottima abitabilità. Il suo armamento era limitato a cannoni da 120 millimetri e, dato che non si volle che l’unità servisse solo a discontinui compiti di rappresentanza, ospitava anche un attrezzato ospedale, disponeva di apparecchiature per la ricarica dei motori elettrici dei sommergibili ed era attrezzata per la posa delle mine. La velocità massima di venti nodi era più che doppia rispetto a quella della maggior parte delle cannoniere e del naviglio ausiliario e la rendeva idonea a partecipare alle esercitazioni ed alle attività di squadra.
Era inoltre fornita di un distillatore di acqua dolce e gli interni erano abbondantemente coibentati con pannelli di fibra di vetro. Numerosi frigoriferi assicuravano la conservazione degli alimenti e la fabbricazione di ghiaccio.
Dalla sua sede di Massaua la nave visitò tutti i porti italiani ed esteri della zona ed era previsto che avrebbe dovuto essere affiancata da un’unità gemella battezzata Etiopia, ma i tempi stavano evolvendo verso la guerra e fu deciso di impegnare le risorse in altro modo così che quest’ultima non fu nemmeno impostata.
L’Eritrea è ricordata per un’impresa che ha dell’eccezionale. Quando nel 1941 il porto di Massaua stava per essere occupata dagli inglesi, fu deciso che alcune delle unità che erano sopravvissute ai combattimenti dei mesi precedenti tentassero di sfuggire al nemico. Questo era però possibile solo a quelle che avevano un’autonomia sufficiente: mentre il destino delle altre fu di autoaffondarsi o di essere catturate.
Ii sommergibili Perla, Archimede, Guglielmotti e Ferraris riuscirono a raggiungere l’Europa mentre l’Eritrea, il RAMB I e il RAMB II, due moderni mercantili armati, ebbero l’ordine, ciascuna seguendo rotte diverse di raggiungere l più porti amici più vicini. Vicini per modo di dire perché questi si trovavano in Giappone.
Al comando del Capitano di Fregata Marino Iannucci l’Eritrea lasciò Massaua il 18 febbraio 1941.

Era in realtà un espediente di riuscita molto dubbia, ma il caso volle che proprio in quei giorni il vero Pedro Nunez – il Portogallo era neutrale e quindi le sue navi erano libere di navigare dovunque – si trovasse in zona diretto alla colonia di Timor. Gli inglesi, che erano al corrente del fatto, si limitarono ad osservare la nostra nave da lontano: convinti aprioristicamente della sua identità se ne disinteressarono.
Giunta in Giappone l’Eritrea fu raggiunta dal RAMB II mentre il RAMB I era stato intercettato e affondato dall’incrociatore neozelandese Leander.
Dopo aver svolto varie attività a favore degli alleati, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’Eritrea, ottemperando agli ordini, riuscì una seconda volta ad eludere la sorveglianza nemica, che ora era diventata quella giapponese, raggiungendo Colombo nell’isola di Ceylon.
Non poté essere seguita dal RAMB II perché, trovandosi ai lavori, venne catturato dai giapponesi che lo utilizzarono come trasporto venendo poi affondato nel 1945.
Più tardi, a seguito del trattato di pace, l’Eritrea dovette essere consegnata alla Francia in conto riparazioni danni di guerra; fu ribattezzata Francis Garnier e venne destinata al servizio coloniale in Polinesia. Un ventennio dopo l’ormai trentenne e gloriosa nave venne radiata ed infine affondata nel 1967 come bersaglio per un esperimento.
Terminato il conflitto l’Italia era convinta di poter conservare qualcuna delle sue colonie e, in quest’ottica speranzosa, sarebbe stato opportuno cominciare a pensare ad una nuova nave coloniale in sostituzione dell’Eritrea.
Stante la situazione politica ed economica del nostro paese non si poteva certo pensare a costruire una nave nuova e ci si dovette accontentare ricorrendo a quanto offriva il mercato dell’usato: nel 1946 fu acquistato il grosso dragamine di squadra inglese Larne che venne tenuto disponibile per adattarlo al futuro e ipotetico compito. Fu ribattezzato Eritrea e classificato corvetta coloniale ma, come si sa, il Trattato di Pace non lasciò all’Italia nessun territorio africano: l’unità venne ridenominata Alabarda e fu destinata ad altro impiego e quando nel 1950 l’Italia cominciò a svolgere in Somalia il suo mandato di Amministrazione Fiduciaria per conto dell’ONU era presente nell’Oceano Indiano solo il Cherso, una nave da carico ex austroungarica che dopo aver svolto qualche trasporto di materiali e qualche lavoro idrografico venne radiata per la sua vetustà nel 1951.
.
Caratteristiche delle navi coloniali italiane
.
Nome |
Dislocamento a pieno carico (tonn.) |
Lunghezza (m) |
Velocità massima (nodi) |
Armamento principale (cannoni e calibro) |
Equipaggio |
Incrociatore C. Colombo |
2757 |
76,4 |
13 |
6-120, 2-75 |
238 |
Incrociatori coloniali classe Campania |
3187 |
83,3 |
15,5 |
6-152, 4-76 |
204 |
Nave coloniale Eritrea |
3117 |
96,9 |
20 |
6-120 |
234 |
Nave coloniale Eritrea (2^) Ex Larne |
1258 |
68,58 |
16 |
1-100 4-37 |
115 |
In realtà l’Italia aveva anche altra nave coloniale, anche se classificata come nave avviso; si chiamava Diana ed era successiva alla Eritrea. Operò nel bacino del Mediterraneo.
"Mi piace""Mi piace"
Pingback: LA NAVE COLONIALE “ERITREA” – NAVISMOTOR