Gli italiani d’Eritrea tra sciftà e inglesi

E’ arrivato il momento di raccontare la storia degli italiani d’Eritrea, mai giunta al grande pubblico o sui giornali, se non per il fatto che eravamo considerati tutti colonialisti, fascisti e criminali. Anche noti storici ci dipingevano in questo modo ma noi siamo stati un altra cosa, che cercherò di descrivere iniziando da qui, perchè si sappia che abbiamo fatto parte di una storia volutamente dimenticata o ridicolizzata.Ma noi, questo è certo,siamo Storia.

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E’ impossibile riuscire a scrivere al proprio cuore ma è possibile farlo a quello degli amici. La nostra esperienza di oramai ex asmarini è diventata un ricordo ma ancora oggi siamo capaci di rimanere senza fiato davanti alla meraviglia di una continua riscoperta del nostro mondo che fu. Per questo basta una parola, una immagine, per spalancare la nostra memoria ai ricordi che teniamo rinchiusi nel recondito ,a volte per non soffrire, per farli emergere per un attimo ma sufficiente per illuminare la nostra vita. Sappiamo in anticipo come sono andate a finire le nostre storie ma le riviviamo come se non lo sapessimo e le vogliamo rivivere ancora. In Italia infuriava ancora la guerra civile quando gli italiani di Asmara, dopo le batoste subite, si rimettevano in piedi. Lo fecero così bene che gli inglesi, vincitori e occupanti della città, schiumavano di rabbia. Asmara era ancora nostra e loro dovevano accontentarsi di guardare e ammutolire: guardare le nostre corse d’auto, i nostri bar, i nostri cinema e teatri, la nostra voglia di vivere. Per farci andare via pagarono banditi che uccidevano i nostri sulle strade, nelle piantagioni, nelle miniere ma, alla fine, noi restammo e loro andarono via. Un capitano inglese, con una moglie dal cappellino inguardabile era sempre presente all’Ippodromo di Campo Polo. Al loro paese le corse dei cavalli erano un rito e vederli lì, trottare o galoppare o superare ostacoli, in un recondito altopiano dell’Africa non pareva loro vero. In Eritrea la guerra termina nel 1941 mentre in Italia infuria la guerra civile che durerà sino al 1945 e la comunità italiana di Asmara fu completamente isolata e priva di rifornimenti.

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I primi anni dell’occupazione inglese, dall’aprile 1941, in cui si ebbe la resa di Asmara, all’8 settembre 1943, furono un periodo molto duro per gli italiani in Eritrea. Anch’essi furono colpiti dai provvedimenti volti a ridurre la comunità italiana residente (rimpatri, trasferimento in campi di concentramento). Come si legge nel rapporto del marzo 1950 preparato dal Comitato Rappresentativo degli Italiani in Eritrea (CRIE), civili italiani furono evacuati per gruppi successivi a partire dal 1941-1942 e convogliati in campi di concentramento in Sudan, Kenya e Sud Africa. I prigionieri italiani furono poi liberati a cominciare dal secondo semestre 1945. Lo stesso rapporto descrive le condizioni di pericolo in cui avvenivano spesso i trasporti degli evacuati: “Il sistema poi adottato di imbarcare gli evacuati civili su navi di trasporto, sotto ponte, insieme con reparti armati di truppa delle forze armate britanniche, oltre ad esporre pacifici cittadini a disagi e sofferenze di ogni genere, fu causa determinante del tragico episodio, verificatosi nel novembre del 1942 nelle acque del canale di Mozambico allorché il piroscafo “Nuova Scozia”, su cui erano stati imbarcati a Massaua circa 800 evacuati civili italiani diretti in Sud Africa, insieme con un contingente di truppe appartenente a reparti coloniali inglesi – fu affondato, ad opera di unità della marina tedesca, cagionando la morte di centinaia di connazionali”. Dopo la resa di Asmara alcune decine di uomini restarono in armi e continuarono la resistenza contro gli inglesi fino alla fine di ottobre 1943, quando, con ritardo, giunse la notizia dell’armistizio e fu chiaro che l’Italia aveva ormai perso la guerra. Da quel momento la comunità italiana lottò per la propria sopravvivenza, per il riconoscimento del proprio diritto a rimanere in Eritrea e per rimettere in sesto l’economia, cercando tra l’altro di fermare lo smantellamento delle infrastrutture italiane operato dagli inglesi anche in Eritrea. Si intavolò dunque un dialogo con i britannici, dialogo che si rivelò proficuo. In definitiva l’esperienza dell’Amministrazione britannica costituì una cesura meno netta per la comunità italiana in Eritrea rispetto a quanto avvenne in Etiopia.

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La collettività italiana giocò un ruolo attivo nella lotta interna per la definizione del futuro politico dell’Eritrea. L’impegno politico degli italiani fino alla realizzazione delle federazione è una delle manifestazioni che dà il senso del loro attaccamento all’Eritrea, considerata come una seconda patria, ma anche come la loro “vera casa”. Molti di loro risiedevano lì già da generazioni e molti altri erano arrivati negli anni dell’occupazione dell’Etiopia trovandovi un’accogliente realtà, molto simile ad una realtà italiana di provincia, e stabilendovi i propri interessi ed il proprio futuro. Un bell’affresco della vita degli italiani in Asmara si trova nella rivista “Vie Nuove”: “In effetti è una città efficiente, linda, nel centro, con il suo viale dove passeggiare la sera, i suoi luoghi di ritrovo, il Circolo Italiano frequentato solo da quelli da un certo livello in su (il presidente è il più grosso industriale italo-etiopico, Barattolo), con i suoi pettegolezzi, le sue mollezze: è una quintessenza di provincia, più che una città”. Nel periodo che va dal 1941 al 1950-52, all’adozione cioè della risoluzione UN-390V ed alla realizzazione della federazione, gli italiani affrontarono non poche difficoltà legate al peggioramento delle condizioni di sicurezza del Paese ed in particolare alle azioni di banditismo e terrorismo degli scifta, azioni che in parte erano rivolte proprio contro gli italiani e soprattutto contro le loro attività agricole. “A prescindere dalle razzie dalle quali nessuna grossa o piccola azienda è andata immune, a prescindere dagli episodi di saccheggio e di incendio che hanno gravemente danneggiato grandi e piccole aziende, ovunque situate, sta di fatto che la quasi totalità degli agricoltori nazionali è oggi costretta a non risiedere più stabilmente nell’azienda, ad affidare la direzione della stessa a personale nativo che a sua volta si trova continuamente sotto il terrore delle continue e diuturne angherie da parte di bande di scifta”.

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Come spiega Tekeste Negash, esistevano tre gruppi di scifta. Un primo gruppo compiva vendette personali legate a rivendicazioni individuali, familiari e claniche. Un secondo gruppo agiva per motivazioni puramente economiche: si trattava di banditi che dal nord dell’Etiopia compivano le loro scorrerie nei vicini territori dell’Eritrea, in mancanza di un efficace controllo di pubblica sicurezza. Il terzo gruppo agiva per motivazioni politiche e, legato in particolare al partito degli unionisti, concentrava le proprie azioni contro coloro che non erano partigiani dell’unione e quindi anche contro gli italiani residenti. Per quasi tre anni, dal 1948 al 1951, 2.000 partigiani unionisti mettevano a segno attentati nei centri abitati, attaccavano le fattorie isolate, razziavano il bestiame, incendiavano raccolti e migliaia di abitazioni, uccidevano 44 italiani e molte centinaia di eritrei. Agli scifta unionisti replicavano con la stessa ferocia bande di assaortini e di musulmani della Lega, armati e pagati dalle autorità italiane. Si assisteva così a un nuovo conflitto armato fra Italia e Etiopia, sebbene i due antagonisti non si battessero a viso aperto, ma utilizzassero bande di mercenari. Quanto agli inglesi, che avrebbero dovuto mantenere l’ordine nel paese, rivelavano nei confronti degli unionisti un’insolita tolleranza, che in qualche caso si trasformava in complicità”. L’estremismo scifta contro gli italiani si spense con l’esaurirsi delle motivazioni politiche che lo animavano e cioè con la creazione della Federazione. Gli altri due gruppi invece continuarono a proliferare ben oltre quella data, approfittando dell’inadeguato controllo del territorio da parte del Governo eritreo.

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La composizione della comunità italiana in Eritrea sul piano professionale era molto varia e si può dire che in ogni ambito le attività italiane realizzassero produzioni di eccellenza: “Ancora per tutti gli anni 40, ad Asmara, i professionisti italiani non temono la concorrenza. Nel 1946 esercitano ancora nella capitale 78 medici, 47 avvocati e procuratori, 44 commercialisti e ragionieri, 32 ingegneri, 15 geometri ed agronomi, 8 veterinari e 2 notai. La comunità vanta anche un certo numero di pittori, musicisti, direttori d’orchestra, un impresario teatrale del talento di Antonio Carosone, un archeologo di fama come Vincenzo Franchini, un fotografo del mondo africano del livello di Walter Amadio, uno studioso della numismatica axumita come Francesco Vaccaro, un esploratore dell’audacia e fantasia di Tullio Pastori”. Gli imprenditori giocarono tuttavia un ruolo di particolare rilevanza. Le imprese italiane infatti costituirono l’ossatura del sistema economico eritreo per il trentennio intercorso tra la fine dell’occupazione italiana e la caduta di Haile Selassie. Grazie a questa importante presenza l’economia eritrea si presentava molto più moderna e dinamica di quella etiopica. Agli inizi degli anni 50 l’Eritrea ospitava l’80% delle imprese manifatturiere e di costruzione dell’intero territorio dell’Impero. Inoltre la quasi totalità del settore industriale e dell’agricoltura avanzata eritrei apparteneva ed era gestita dagli italiani. Nel 1944 venne fondata l’“Associazione Esportatori Prodotti eritrei” che, nel 1947, divenne “Camera di Commercio, Industria e Agricoltura dell’Eritrea”. Gli italiani mantennero una posizione di assoluto rilievo al suo interno sia riguardo al numero di associati, di cui costituivano la maggioranza, sia riguardo alla copertura della massime cariche sociali, in generale affidate agli italiani. Queste informazioni danno una prima indicazione della notevole e positiva incidenza delle attività italiane sull’economia nazionale in Eritrea ed Etiopia.

di Pasquale Santoro

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