La storia coloniale, non diversamente da quella di certe regioni italiane, durante il periodo fascista ha visto spesso imponenti interventi di riqualificazione dei territori e di valorizzazione della loro economia, culminati nella costruzione di centri industriali e nella fondazione di nuove città: dal Villaggio Duca degli Abruzzi ai centri di colonizzazione della Libia fino, in Italia, ad Aprilia, Pomezia, Segezia, Torviscosa. Al di là dell’enfasi propagandistica, era anche la risposta data dal regime al problema della disoccupazione urbana e rurale che veniva parzialmente assorbita dalla richiesta di manodopera per i cantieri e della lavorazione dei nuovi terreni messi a coltura.
Anche l’isola di Rodi non fu estranea a questi interventi benché la sua posizione fosse sui generis: a parte il fatto che era un possedimento dipendente dal Ministero degli esteri e non una colonia, ci si doveva inserire in un tessuto economico-sociale sviluppato, sostanzialmente non diverso da quello dell’Italia meridionale e che lasciava poco spazio ad interventi radicali sul territorio. Quindi tali interventi, che pur non mancarono, non furono molto numerosi e avvennero in tono minore, incidendo poco sull’assetto generale e ben consolidato della società locale. L’iniziativa più importante fu realizzata a partire dal 1929 nell’entroterra nord occidentale dell’isola di Rodi, a una ventina di chilometri dal capoluogo nell’area attorno all’insediamento mussulmano pressoché abbandonato di Kalamon.
Si trattava di un comprensorio di ben 3500 ettari di latifondi incolti acquistato dalla “Società Agricola Frutticoltura” che fu ceduto ben volentieri e a buon prezzo da latifondisti turchi che come tutti i loro pari vivevano sul continente e avevano pochissimo interesse per le loro proprietà improduttive. Iniziò quindi la bonifica di alcune zone e una rapida messa a coltura e, contemporaneamente, venne costruito un villaggio rurale completo di tutti i servizi: scuole, chiesa, ambulatorio, caserma dei Carabinieri, ufficio postale e acquedotto che fu servito da una nuova strada che si distaccava la dalla via litoranea e da altre secondarie che si articolavano in una decina chilometri di strade interpoderali. Il centro fu battezzato Peveragno Rodio in onore del Governatore dell’Egeo Mario Lago, originario dell’omonimo paese in provincia di Cuneo. Fu elevato a comune l’8 agosto 1930. Ovviamente la produzione agricola si incentrava sulle coltivazioni mediterranee: olivi, viti e frutteti ma non mancava anche un settore zootecnico. In un primo tempo vennero piantati 8000 olivi, 7000 alberi da frutto e 130000 viti e vi furono fatti affluire 110 bovini e 800 ovini mentre una serie di moderni impianti agroindustriali permetteva la lavorazione sul posto della produzione che veniva in buona parte esportata o che, come i prodotti caseari, trovò subito uno sbocco sul mercato della vicina Rodi.
Vi vennero fatti affluire centinaia di lavoratori con le loro famiglie provenienti dall’Italia escludendo il coinvolgimento di contadini greci che erano presenti solo come operai occasionali o salariati. I coloni che vi furono trasferiti provenivano da parecchie regioni italiane e soprattutto dalla provincia di Pavia: a seconda della provenienza venivano indirizzati verso attività specifiche in relazione all’esperienza maturata nei luoghi di origine: i pavesi di occupavano delle colture erbacee e foraggere, i romagnoli dei frutteti e i salernitani della pastorizia. A conti fatti non si può dire che Peveragno Rodio sia stato un successo, né con il poco tempo in cui lavorarono gli italiani poteva essere diversamente: l’area era troppo vasta perché potesse rapidamente essere messa tutta a coltura e fruttificare, ed era necessaria molta manodopera. Alla fine il governo si trovò costretto a riconoscere un contributo giornaliero ad ogni colono: se questo la dice lunga sulla redditività del comprensorio nella seconda metà degli anni ‘30, non si può escludere che con questo sostegno sicuro non sia anche subentrata una certa rilassatezza delle maestranze che si sommò alle lamentele sullo scarso rendimento degli operai greci. Nel 1947, con l’assegnazione delle isole dell’Egeo alla Grecia, gli italiani se ne andarono quasi tutti dall’arcipelago: fu un esodo meno drammatico di quelli che si svolgevano in altre aree, ma la Grecia ci riservò un trattamento inflessibile anche se senza rappresaglie né azioni illegali cancellando con energia tutto quanto era attinente all’Italia anche perché erano molti i rodioti favorevoli a un prolungamento della nostra amministrazione perché la riunione con la madrepatria, pur sognata da secoli, significava dover condividere la situazione di un paese stremato e povero che combatteva una sanguinosissima guerra civile che, se fosse stata persa, lo avrebbe attirato nell’orbita sovietica, mentre l’Italia, anche se uscita sconfitta dalla seconda guerra mondiale, non era così in ginocchio e la ricostruzione faceva prevedere un futuro molto migliore. Quindi anche Peveragno Rodio fu abbandonato, ma non morì. Le strutture più caratteristiche, comprendenti gli edifici in stile littorio e la chiesa sono stati trasformati in una base dell’esercito: la zona è vietata alle visite e gli edifici non possono neppure essere fotografati ma sono ancora tutti “in attività di servizio” per dirla alla militare. Anche il lavoro svolto dagli agricoltori italiani non è andato sprecato. I terreni erano già stati tutti bonificati e le piantine messe a dimora erano nel frattempo cresciute e all’azienda italiana subentrarono coltivatori greci che fecero tesoro di quello che era stato lasciato.
Il comprensorio, chiamato oggi Epàno Kàlamon oggi conta circa 250 abitanti ed ha beneficiato dello sviluppo del turismo degli ultimi decenni: le aziende locali vendono sul posto olio, miele e prodotti mediterranei ed esistono anche marchi commerciali.Il comune in cui si trova è quello di Petaloudes noto perché nello stesso territorio, poco a monte dell’antica Peveragno, si trova la “Valle delle farfalle”, un piacevole parco attrezzato dove periodicamente si riuniscono enormi sciami di farfalle, affollata meta turistica. Un ambiente rimasto di successo il cui merito è tutto italiano.
di Guglielmo Evangelista
APPROFONDIMENTI CON LA COLLANA STORICA “ROMANAMENTE”:
– Vol. XIV “Come l’Italia fascista creò la nuova città di Rodi” Dossier dedicato ai nuovi interventi dell’Italia nella città di Rodi. Dai restauri della città medievale alla creazione della nuova città. Dalle nuove e moderne strade asfaltate al rilancio del turismo di massa con grandi alberghi di lusso, spiagge, campi da golf e comunicazioni internazionali con un nuovo porto commerciale e un aeroporto.
– Vol. XI “Come l’Italia fascista valorizzò i deserti in Africa” Dossier dedicato alle opere agricole in Tripolitania (Libia) realizzate a partire dagli anni Venti con il governatore Volpi, seguito da De Bono e Badoglio.
– Vol. V “Come l’Italia fascista industrializzò l’Africa” Dossier dedicato all’azienda della SAIS “Società Agricola Italo Somala” con sede al Villaggio Duca degli Abruzzi, fondato dal Principe Luigi di Savoia sulle rive del fiume Uebi Scebeli.