I racconti dell’ascari Beraki Ghebreslasie, “fedele soldato italiano”

Dalla guerra italo-abissina alla difesa di Gondar. L’incredibile epopea di un anziano reduce che, con la nostra uniforme, seppe servire con fierezza e orgoglio la nostra e… la sua Patria.

 
Ascari_Beraki Ghebreslasie (4)Beraki Ghebreslasie un anziano cittadino di 92 anni. Lo incontro in una casa di riposo per anziani del comune di Roma in cui vive ospite da molto tempo. Il colore scuro della pelle ricorda la sue origini etiopi, ma stringendomi la mano si affretta presentarsi come “fedele soldato italiano”. Nato ad Adinebri, ma vissuto in Eritrea si arruolò nel 1933 nel Regio Esercito e combattè a fianco dei nostri sodati nella seconda guerra italo-abissina del 1935-1936 e nell’ultima resistenza a Gondar contro gli Inglesi nel 1941, sotto il comando del Generale di Corpo d’armata Guglielmo Nasi
Ghebreslasie un Ascari che giurò fedeltà alla bandiera italiana e combatté per essa fino alla resa dell’Africa Orientale Italiana. Gli ascari erano soldati indigeni volontari inquadrati nelle formazioni regolari del Regio Corpo Truppe Colonia italiano. Le loro origini risalivano al 1889, con la costituzione dei primi quattro battaglioni eritrei, i cui componenti ricevettero l’appellativo di “Ascari”, dall’arabo “Ascar”, soldato. Indossavano una divisa i cui caratteri distintivi erano un copricapo denominato “tarbusc” e una fascia avvolta in vita, denominata “etag”, con i colori dell’arma o dell’unità. Ghebreslasie combatté dapprima come semplice ascaro, partecipando alla conquista dell’Etiopia e successivamente con il grado di Sciumbasci, l’equivalente del nostro maresciallo, nel 1941 alla difesa del ridotto di Gondar, capoluogo della regione dell’Asmara. Ho ripercorso con lui le vicende belliche di quegli anni di cui serba un ricordo vivido ed emozionale, quasi come se da allora il tempo per lui si fosse fermato.
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Ascari_Beraki Ghebreslasie (2)“Io ero fiero di essere un soldato italiano. Lo sono stato sempre. Sia nella vittoria sia nella sconfitta. Mi sono arruolato per rendere onore alla mia bandiera, quel tricolore sotto cui sono nato e fu proprio quando gli inglesi lo minacciarono che io mi sentii offeso nell’orgoglio e lottai oltre le possibilità fisiche e mentali, oltre anche all’umana paura, pur di compiere il mio dovere di soldato. Per il mio Re Vittorio Emanuele III ho sofferto la fame, perso il sonno e provate dolore. Però ho sempre avuto la convinzione che servire l’Italia sarebbe stata la missione più nobile della mia vita. Avevo ragione.”
Infatti lei, come molti altri, rimase in armi al servizio dell’Esercito Italiano anche negli anni che seguirono alla proclamazione dell’Impero. Il Negus era stato costretto ad abbandonare l’Etiopia e ad Addis Abeba sventolava la bandiera italiana anche se parte del paese doveva ancora essere pacificata. La decisione di rimanere sotto le armi fu sua o imposta dai comandanti?
“Era mio volere restare. Io sono un soldato. Un soldato italiano. Il comandante non chiese a noi coloniali se volevamo essere congedati, non lo chiese neanche agli italiani. Non ricordo nessun compagno andare via. Restammo tutti e volevamo restare tutti.”
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Lo stato di ribellione in effetti continuò in tutte le regioni etiopiche anche dopo il 1936 alimentato dalla Gran Bretagna e dalla Francia, presenti nel Corno d’Africa con i loro possedimenti, e che non vedevano di buon occhio il rafforzamento delle posizioni italiane. Nelle cosiddette operazioni di grande polizia coloniale contro la guerriglia etiope svolte fino al 1940 furono impiegate per lo più truppe coloniali e bande irregolari al servizio degli italiani, più idonee ad operare contro le formazioni di guerriglieri estremamente mobili ed a loro agio in terreni aspri, inospitali e privi di vie di comunicazione. I problemi aumentarono dopo l’intervento dell’Italia nel secondo conflitto mondiale. L’Africa orientale italiana rimase tagliata fuori dalla madrepatria ed impossibilitata ad essere rifornita di armi, equipaggiamenti e munizioni.
“Ricordo che da Roma arrivarono nei primi mesi del 1940 dei mezzi e degli uomini. Tutti Ufficiali, ma avevamo pochi autocarri. Le gomme e le scorte di carburante erano sufficienti per qualche mese, due o tre al massimo. Il vestiario e il vettovagliamento però non erano un problema, per fortuna.”
Minacciata dall’invasione tedesca sul proprio territorio, la Gran Bretagna lasciò, nell’estate-autunno 1940, l’iniziativa delle operazioni delle forze italiane, che svolsero limitate azioni offensive contro la Somalia britannica, che venne integralmente conquistata, e puntate in direzione del Sudan e del Kenia.
“Quando noi avanzammo verso Cassala nel Sudan sudorientale, l’obbiettivo fu raggiunto con facilità, senza perdite. Occupammo solo Cassala perché era un centro importante, a 20 km dalla frontiera eritrea e poi poco dopo anche Moyale, in Kenia.”
Gli inglesi passarono al contrattacco nel gennaio del 1941 stringendo da ogni lato in una gigantesca morsa possedimenti italiani dell’Africa Orientale. Dopo aver tentato inutilmente di difendere le posizioni di frontiera, gli Italiani, agli ordini di Amedeo Duca d’Aosta, ripiegarono verso linee arretrate all’intero del vasto territorio compreso tra Eritrea, Etiopia e Somalia. Lo squilibrio delle forze in campo, che vedeva i Britannici prevalere nettamente in mezzi tecnici quali carri armati, autoblindo aeroplani e artigliere, non lasciava nessuna possibilità di vittoria alle truppe italiane. Rimaste ben presto a corto di rifornimenti e pressate fortemente anche dai guerriglieri etiopi, rincuorati dall’arrivo degli Inglesi, le residue forze del Duca d’Aosta si attestarono a difesa di ridotti con l’intenzione di resistere il più a lungo possibile alle preponderanti unità avversarie. Il 19 Maggio 1941 si arrendeva, dopo due settimane di eroica resistenza, il caposaldo dell’Amba Alagi, che ottenne l’onore delle armi da parte degli Inglesi. Rimanevano ancora 80.000 Italiani in armi, al comando del generale Gazzera, nel settore sud occidentale, e del generali Nasi, in quello nord occidentale.
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Ascari_Beraki Ghebreslasie (5)“Io ero inquadrato con il contingente del generale Guglielmo Nasi a Gondar, in Etiopia. Ci divise da subito in più punti: Culquaber, Uolchefit e Debra Tabor. Io stavo a Culquaber, a circa 40 km da Gondar. Eravamo isolati, senza possibilità di ricevere rinforzi, però ci sentivamo protetti dalle montagne. Era un lungo strategico a 2.000 m di altezza. Una formidabile fortezza naturale.”
Gondar era stata scelta quale ultima difesa dell’impero perché torreggiava l’altopiano etiope circostante. Per raggiungerla gli attaccanti erano costretti ad arrampicarsi per ripidi pendii rocciosi e i rifornimenti vi potevano giungere soltanto attraverso malagevoli mulattiere. Su queste posizioni gareggiavano in eroismo le truppe italiane e gli Ascari, che a lungo tennero testa ad un nemico soverchiante.
“L’artiglieria e l’aviazione Inglese ci stavano decimando, giorno dopo giorno. Avevo perso tutti i miei compagni più cari ed ero certo che non sarei sopravvissuto neanche io. Il Generale Nasi è un eroe, se oggi sono vivo lo devo solo a lui. Siamo stati noi, i suoi uomini, gli ultimi ad ammainare la bandiera italiana. Abbiamo resistito, senza mangiare né dormire per cinque lungi giorni. Eravamo rimasti in pochi ma eravamo diventati tutti fratelli. Tutti. Non li dimenticherò mai. Sono trascorsi 65 anni d’allora, eppure ho davanti agli occhi i loro visi, come se li potessi ancora vedere sorridere. Le esperienze come questa non si possono dimenticare e il ricordo è sempre presente nelle mie giornate.”
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L’assedio del sistema difensivo dell’Amara, incentrato sulle posizioni di Gondar, si protrasse per vari mesi. Alla fine gli italiani dovettero capitolare perché rimasti senza viveri e munizioni. L’ultimo Tricolore dell’Impero fu ammainato il 28 Novembre 1941. Perirono nella battaglia di Gondar oltre 500 militari nazionali e 248 Coloniali.
“Dopo un periodo di prigionia sono riuscito a fuggire e ho riparato in Sudan. Sono arrivato dopo venti giorni di cammino, a piedi e là sono rimasto per due anni, ospite di un sacerdote. Successivamente sono tornato in Eritrea e nel ’47 sono stato congedato. Ero un po’ triste e disorientato. E’ difficile per chi ha indossato una divisa per così tanti anni doversi trovare un posto nella società civile e rassegnarsi ad una vita più tranquilla, alla vita che fanno tutti. Per questo decisi, nel 1972, di venire qui a Roma. Ho lavorato presso l’Istituto italiano di Studi africani per oltre trenta anni. Adesso che sono finalmente a riposo è la vecchiaia a darmi qualche problema di salute, ringrazio quanti, come lei, mi chiedono di raccontare della guerra d’Africa. Mi rendono felice, perché la mia mente a dire il vero è ancora lì, tra le montagne a nord del lago Tana, là a Gondar con i miei compagni perduti. Parlare della mia storia è come parlare di loro, onorare la loro memoria e il loro coraggio. Sento questo dovere, perché anche le nuove generazioni sappiano degli Eroi d’Africa che si sono sacrificati per la loro e per la nostra patria. Io sono stato tra i più fortunati, forse proprio per poterlo raccontare.”
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Articolo estratto da RIVISTA MILITARE, marzo/aprile 2007. Bimestrale dell’Esercito Italiano
 
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