La politica coloniale nei primi anni del Fascismo (1922-1925)

Il 30 ottobre 1922, a seguito della riuscita marcia su Roma di due giorni prima, Benito Mussolini fu nominato ufficialmente capo del Governo.

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Rodolfo Graziani in Libia

Quello stesso giorno l’allora colonnello Rodolfo Graziani occupò Jefren in Libia,portando a termine l’incarico affidatogli dal ministro liberale delle Colonie Giovanni Amendola e dal governatore Volpi di Misurata. I liberali lasciarono in eredità al governo fascista una Libia ed una Somalia da riconquistare ed un’Eritrea da modernizzare. Le prime fasi della politica coloniale mussoliniana furono in sostanziale continuità con la linea liberaldemocratica di Amendola, non avendo il Duce elaborato una strategia autonoma per l’Africa. Il problema era legato principalmente alle divergenze tra fascisti e nazionalisti sulla politica da seguire nelle colonie, e più in generale nel Mediterraneo e nel Levante. Se infatti i nazionalisti più accesi, da Corradini a Coppola, avevano ripetutamente sottolineato la “vocazione imperiale” dell’Italia, anche i nazionalisti moderati raccoltisi attorno al nuovo ministro delle Colonie Federzoni avrebbero voluto veder soddisfatte le ambiziose linee programmatiche tracciate da quest’ultimo alla Camera nel memorabile discorso del 1916.

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Luigi Federzoni

La sconfitta degli imperi centrali ed il crollo dell’Impero Ottomano avrebbero aperto – così credevano i nazionalisti negli anni di guerra – una nuova fase favorevole per il colonialismo italiano; il contributo di Roma alla vittoriosa guerra dell’Intesa avrebbe dovuto assicurare all’Italia non solo i territori sanciti dal Patto di Londra, ma anche nuove opportunità da cogliere al volo (tra le altre Malta, il Marocco e l’Egitto). Al contrario dei nazionalisti, i fascisti non avevano abbracciato in toto l’imperialismo. Specialmente negli ambienti legati alla corrente “revisionista” di Giuseppe Bottai e Massimo Rocca, forti erano le suggestioni dell’espansionismo “culturale” del fascismo che poi sarebbe divenuto “imperialismo spirituale” nella seconda metà degli anni ’20. Nel novembre 1922 in un discorso alla Camera Mussolini, tracciando le linee delle politica coloniale, disse che obiettivo del nuovo governo italiano sarebbe stato quello di incentivare gli scambi commerciali di Eritrea e Somalia con l’impero etiopico e che premessa a questo sarebbe stato il “mantenimento rigoroso dell’integrità dell’Etiopia”. Dunque un programma in linea con quanto scritto da Bottai nel 1920 in un articolo pubblicato su “L’Ardito”, dove la “cooperazione intima, morale e intellettuale coi popoli” era indicata quale principio primo della politica estera e coloniale del fascismo. In tale ottica Bottai arrivò a definire una politica coloniale impostata con tali premesse come rivoluzionaria ed “antiimperialista”.

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Salvatore Contarini

Il tentativo di mediare tra queste due posizioni agli antipodi obbligò Mussolini a nominare il nazionalista Federzoni alle Colonie mantenendo saldamente il timone degli Esteri ed affidandosi alla sapiente consulenza del segretario generale del MAE Salvatore Contarini. Già esponente di punta degli “africanisti” e poi uomo di fiducia di Antonino Di San Giuliano, Contarini era considerato vicino ai nazionalisti moderati, dunque persona capace di incanalare le “esuberanze” del primo fascismo entro gli schemi della diplomazia tradizionale. A parere di Contarini le rivendicazioni coloniali italiane avrebbero dovuto rimanere nell’ambito delle alleanze e delle intese con Francia ed Inghilterra, privilegiando – secondo una tradizione ormai consolidata della diplomazia italiana – il “canale preferenziale” con Londra. Parallelamente alla diplomazia ufficiale guidata da Contarini emerse quella che De Felice ha chiamato “diplomazia parallela” il cui scopo fu di natura sostanzialmente sovversiva. Se il principale campo d’interesse della “diplomazia parallela” fu l’area balcanico-danubiana, Medio Oriente ed Africa non restarono indenni. A quel punto obiettivi non dichiarati ma facilmente intuibili per Roma furono nazioni quali l’Egitto, lo Yemen e la Palestina, oltre che l’Etiopia, giudicata da Mussolini ormai prossima allo sfaldamento a causa dei contrasti interni. Alla linea ufficiale sostenuta dalla “carriera” e dagli ambienti del fascismo conservatore, si affiancò quindi un’opera di palese sovversione degli equilibri stabiliti – a tutto danno dell’Italia – a Versailles; ecco quindi emergere con il sostegno diretto di Mussolini personaggi come Franchetti; esploratori, giornalisti ed avventurieri – che potevano arrivare dove i diplomatici accreditati difficilmente avrebbero potuto mettere piede – incaricati di creare una rete di contatti e studiare sul campo la situazione politica, economica e sociale delle terre messe sotto al lente d’ingrandimento dal governo italiano.

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L’Oltre Giuba

La palese ostilità mostrata da Salvatore Contarini nei confronti della “diplomazia parallela” sarà una delle cause che porteranno al suo allontanamento dalla segreteria generale del MAE alla fine del 1925; eppure proprio il 1925 sarà l’anno in cui la politica coloniale fascista otterrà il primo pallido ma comunque sostanziale successo: l’Accordo di Londra. Questo trattato stabilì la cessione all’Italia dell’Oltre Giuba – a cui Roma puntava da prima della Grande Guerra -, il riconoscimento da parte britannica della sovranità italiana sul Dodecaneso e l’occupazione italiana dell’Oasi di Giarabub. Inoltre Roma e Londra stabilirono la divisione dell’Etiopia in zone d’influenza, prevedendo l’implosione dell’impero amarico ed escludendo di fatto Parigi da qualunque trattativa in merito. Proprio con i francesi i rapporti del governo Mussolini divennero freddi negli anni 1922-1925; questo causò non solo la stasi dei negoziati per la revisione dei mandati – problema che riguardava principalmente le rispettive colonie in Africa settentrionale – ma suscitò anche i sospetti transalpini riguardo la politica italiana nel Mediterraneo orientale (occupazione di Corfù e rivendicazione del bacino carbonifero di Adalia). Tra l’altro i rapporti tra i due Paesi non navigavano in acque tranquille anche a causa delle rivendicazioni, ufficiose ma rumorose, da parte italiana di Gibuti, del Ciad e del Camerun. Infatti se Gibuti era un antico cruccio del colonialismo italiano, lo stesso non poteva dirsi per gli altri due territori, entrambi visti da Palazzo Chigi e Consulta come “risarcimenti” sufficienti per Roma dopo lo smacco subito a Versailles. Da notare poi che mentre la rivendicazione del Ciad fu un gesto nella sostanza “simbolico”, quella delle “terre umide” equatoriali del Camerun rispondeva ad un programma ben preciso di politica coloniale ideato dai nazionalisti negli anni della Grande Guerra sugli organi di stampa, e che aveva poi contagiato molti funzionari del Ministero delle Colonie arrivando infine a lambire gli “appetiti” dei più convinti africanisti in seno al PNF. Alla fine del 1925 la situazione nei territori di diretto dominio non era comunque incoraggiante. In Libia solo la Tripolitania settentrionale era stata totalmente rioccupata e pacificata; le truppe del generale Pizzari facevano invece fatica a contenere la ribellione tribale restando confinate nel Gebel.

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Dipinto “In Libia” di P. Lomellini

In Somalia la presenza italiana era limitata al Benadir mentre nella “colonia primigenia” eritrea il governatore Jacopo Gasparini stava tentando con innumerevoli sforzi di modernizzare il territorio. Proprio il governatore Gasparini, sembrò seguire pedissequamente il programma politico annunciato dal governo nel novembre del 1922: la ricostruzione di Massaua fece della città un punto d’arrivo per i prodotti provenienti dall’Etiopia, aprendo così un canale commerciali d’importanza vitale per la colonia italiana, nonché una via di penetrazione utile a quella “diplomazia parallela” a cui tanto teneva il Duce. Dal punto di vista politico Gasparini riuscì ad intrattenere ottime relazioni con il sultano dello Yemen mettendo a rischio il controllo britannico di un’area strategicamente vitale. Gli attendismi della diplomazia italiana – che non voleva in alcun modo turbare le relazioni con Londra, viste come l’unico canale entro cui sviluppare una pacifica politica coloniale per l’Italia – impedirono a Gasparini di portare a termine il suo ambizioso, quanto realizzabile, progetto di istituire un protettorato italiano nello Yemen. La prima fase della politica coloniale fascista può dunque essere definita come un periodo di “rodaggio” dove è difficile tracciare una linea di demarcazione netta tra ciò che fu un residuo del colonialismo liberale e quelli che erano i nuovi propositi – non ancora ben chiari tra l’altro – del colonialismo nazional-fascista. L’influenza dei nazionalisti fu particolarmente forte ma a partire dal 1925-1926 il fascismo si diede una linea propria di politica coloniale.

di © Filippo Del Monte – Tutti i diritti riservati

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