Pavolini racconta la “Disperata” nei cieli d’Etiopia

Siamo nella luce, nel freddo. Dal numero uno si vedono a pochi metri gli altri apparecchi della pattuglia, i sorrisi dei camerati che guardano a noi, a destra Lanza, a sinistra Mameli. Le altre due pattuglie triangolari seguono da vicino. Nelle rispettive posizioni gli apparecchi oscillano appena, legati da invisibili elastici.
Sul ciglione di Adi Qualà il monumento ai morti di Adua è una lineetta chiara, un indice che insegna la via. Dal ciglione, le ombre degli aeroplani scendono giù nella valle ed ecco oltrepassano il Mareb, fiumicello non più largo del Rubicone.
Siamo in pieno Tigrai, in piena Etiopia. Gli occhi fanno spola tra il fitto dei nomi sulla carta e la folla delle ambe gigantesca e insensata. Piccoli abitati rurali. Greggi.

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Adua appare a un tratto, agglomerato di tetti rotondi intorno al rotondo Ghebì, come un modesto sistema planetario intorno a un solicino spento. Il ghebì sarà uno dei nostri obiettivi. Gli altri li individuiamo in piccoli accampamenti sparsi nel verde della conca alla periferia della città.
È da questi accampamenti che vedo partire al nostro indirizzo, nettissimi, due colpi di cannoncino: l’inizio della campagna da parte etiopica. Indico i due batuffoli bianchi a Ciano e a Casero che sono ai posti di pilotaggio. Mano alzata, Ciano mi fa segno di tenermi pronto a bombardare.
Siamo a un migliaio di metri di quota, diretti al ghebì. Affacciato alla botola che s’apre sull’abisso turchino e verde, regolo il puntamento e poso il pollice sul bottone dello sgancio elettrico delle bombe. Quando il Comandante abbasserà la mano, quando premerò, daremo il via alla guerra, col primo colpo da parte italiana.
La storia è un fluido che ora converge in una zona ora in un’altra secondo i momenti; che colma una vasta atmosfera o si concentra in un punto solo. Adesso la sentiamo concentrata quassù fra noi, in questa celletta per aria. Il ghebì s’avvicina, s’avvicina tra le parallele del traguardo di puntamento. Ciano abbassa la mano; premo il bottoncino d’osso. Seguiamo tutti con gli occhi il precipitare della bomba.
Si sa che al suo scoppio — solitario su questo altopiano remoto e poco praticato, in mezzo a un villaggio di nome famoso ma di misero aspetto — per uno straordinario concorso di circostanze il mondo intero porge l’orecchio. Fra poco usciranno a Londra i manifesti dei giornali con parole laconiche e smisurate: Adoua Bombarded; War begun… Bandiere a Roma; capannelli a Ginevra… Esplosione.
Ho sbagliato di una ventina di metri. Tre volte ripassiamo in fila indiana sugli obiettivi, mollando bombe e spezzoni. Poi, in rotta per Adigrat, altro nome tutto echi, ci si sofferma in evoluzioni di ricognizione sopra l’amba Augher, la quale costituirà uno dei rari scogli alla avanzata su Adua.
Quiete nella catena dell’Enticciò. Della mobilitazione etiopica abbiamo visto e vedremo i segni solo nei modesti attendamenti intorno ad Adua e ad Adigrat. Adigrat è un grosso villaggio in una conca sbrecciata, fra un verde di campicelli e di pascoli intimidito dalla vicinanza di quella immensa massa di pietra franta che sono le ambe.
Esaurito il carico, le pattuglie si ricompongono, serrano gli intervalli, di nuovo visi di camerati ci fissano da pochi metri. A destra i chiari occhi di Lanza, a sinistra i chiari occhi di Mameli. È, nella danza del vento diurno, nella leggerezza dei quintali scaricati, il primo di quelli che saranno i nostri molti e differenti ritorni di guerra. Chi è destinato un giorno a non ritornare non ne ha ancora il presentimento. Si canta, senza udirsi. Sulla calda, buona terra di mezzogiorno ci accolgono visi in festa.

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BATTESIMO DEL PIOMBO

Se il volo che inaugurò la guerra ebbe carattere sopratutto dimostrativo, il secondo giorno immise subito la «Disperata» nella serie di quelle azioni a volo radente, di quei combattimenti aereoterrestri che dovevano farlesi abituali e diventare poi una fra le caratteristiche dell’attività aerea nella campagna etiopica.
Anche nel secondo giorno, dunque, l’alba ci trovò «in linea»: espressione che in linguaggio d’aeroporto designa la retta cui stanno schierati i velivoli in campo, ognuno al suo posto numerato. Fra l’uno e l’altro le provviste di bombe, i mucchietti di spezzoni. I motori si scaldano: il gas balena nel crepuscolo, le raffiche delle eliche disegnano ritrose nell’erba e cancellano nei capelli le pieghe del letto. Chiusi nelle tute impellicciate, stretti in gruppo appoggiandosi l’un l’altro le braccia sulle spalle, i piloti prendono dal Comandante gli ordini, che il coro dei motori riduce all’essenziale; seguono l’itinerario dell’indice sulla carta.
Amba Birgutan fu l’indicazione in quella seconda alba. Mentre le truppe avanzavano verso Adua, Enticciò e Adigrat, trovando il cammino preparato dai nostri bombardamenti del giorno prima o richiedendo via via altri interventi aerei per superare più presto le scarse resistenze, noi andammo a ovest.
Finito l’altopiano, le tre pattuglie triangolari della squadriglia calarono sopra i contrafforti e gli scalini del mediopiano, livellati da una nebbia spessa e aderente. Poi fu la grande pianura occidentale.
Pianura e nient’altro, sparsa di acacie spinose quasi prive d’ombra. In questo deserto il Setit, trincea d’acqua e di bosco, segnava il confine. Al di qua, i nostri «piccoli posti» sorvegliavano un eventuale attacco, un eventuale tentativo di molestarci sul fianco mentre si avanzava in forze sull’altopiano.
Al di là, in mezzo alla steppa, il nemico possedeva nell’isolata Amba Birgutan una fortezza naturale, una roccaforte di raccolta, una base per sortite e incursioni. Bisognava dare l’assalto a quel bastione, che unico ed improvviso si leva di milleottocento metri sopra la piana.
Le istruzioni di Ciano erano state precise. Sull’obiettivo, volo radente. Esaurite le bombe lavorare di mitragliatrice.
La comparsa dell’Amba riuscì irreale. Scoglio fosco, scosceso, esso emergeva sulla pianura ricciuta di nebbia quale un castello stregato in un Furioso illustrato da Dorè. È il nostro stormo di ippogrifi accresceva il favoloso della scena, dell’ora.
Puglia, batté l’ordine di Ciano. «In fila indiana». In fila indiana ci si approssimò al bastione vieppiù gigantesco, lo si abbordò, fino a imboccarne a volo radente il crinale.
Lassù, come sulla tolda di un vascello, un piccolo mondo ci si scoprì. Zeribe, tucul, muri a secco, chiusi per greggi, orti, pezzi di pascolo, armenti, cani; fumigavano i resti dei fuochi di notte; e in mezzo a queste abitazioni e difese, a queste salmerie e provviste, qualche centinaio di armati in sciamma sì rimpiattavano correndo nelle capanne, imbracciavano lo schioppo, s’incantavano a guardarci o starnazzavano.

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Da trenta metri, si vedevano in viso. Cogliemmo il loro disorientamento totale. Erano montanari affluiti in carovana dall’Uolcait e dallo Uoldebba, zone fra le più impervie d’Etiopia, seme di guerrieri dei più valenti ma dei più primitivi. Forse ignoravano ancora l’inizio della guerra; incerto si profilava l’atteggiamento del loro capo, Aialeù Burrù, lontano nelle sue montagne oltre la steppa; e senza dubbio essi non avevano mai veduto non dico un aeroplano ma una qualsiasi macchina. Non avevano mai udito un motore. Venuti a occupare quella rupe agli avamposti, inerpicate lassù bestie, armi, ghirbe d’acqua, — il poco necessario per vivere, spingersi in incursioni e razzie per resistere — se ne stavano sicuri nella duplice protezione del dirupo e del deserto. Ora, saltato il deserto, e scalato il dirupo con le macchine più straordinarie, la modernità li raggiungeva a un tratto. Era un urto estremamente brusco fra i mondi estremamente diversi, quasi un incontro di pianeti.
Nostra comparsa, loro smarrimento, fu un attimo. Ai primi spezzoni tutta la scena si trasformò. Tutti puntavano e sparavano, appiattati dietro un masso, un cespuglio, un arbusto, un muretto. Eravamo così bassi che allo scoppio degli spezzoni si sobbalzava. I piloti avevano soltanto da seguire il corso del crinale, del camminamento lungo e piatto. I bombardieri, ritti allo spezzoniere con in mano la leva come i tranvieri, avevano soltanto da spostare la leva da destra a sinistra, da sinistra a destra, seminando. La voce dei motori spariva nelle esplosioni.
Quando, disegnato coi nove velivoli in fila un girotondo, rinnovando l’arrembaggio, nel nostro numero 1 Casero pilotava solo, Ciano ventre a terra imbracciava la carabina mitragliera e faceva cenno di andar più basso, sempre più basso, io e Puglia si stava alle mitragliatrici. Questa volta il crinale ci apparve come la tolda spazzata dalle artiglierie, fumo, sforacchiature nere, cadaveri. Abbarbicati al ciglio dei bàratri, i superstiti sparavano.
Diversi rotolarono giù. Apprendemmo la bellezza dell’aviazione d’assalto, della mischia aria terra: quando la guerra aerea perde la sua astrattezza di alte e fredde quote, di panorami privi dell’elemento uomo, di puntamenti matematici, di bombe di cui si vede lo schianto senza udirlo. Quando,. invece, tutto è calore di terra imminente, fragore, visione d’uomini rapida ma indelebile come un’istantanea.
All’ultimo passaggio, dopo un’ora e un quarto di combattimento, non vedemmo più alcuno. Lasciammo l’Amba espugnata. In cucchiaia i bossoli delle mitragliatrici formavano uno strato caldo. E fu l’ora in cui ci si conta, da un appareechio all’altro — sei, sette, otto… — e a lungo si cerca il ritardatario con il binocolo, nel sole e nel vento, finché alla fine anche il nono risponde alla radio, dice che raggiungerà. Fu l’ora in cui distratti, assordati, le nari abitate da acri odori, si trova un sonno frammentario con un paracadute per cuscino.
Al campo ci si accorse che sul numero uno una grossa pallottola aveva forato un longherone. Era il primo colpo che aeroplani avessero raccolto; in un’ala della «Disperata» l’aviazione d’A.O.I., ricevette il battesimo del piombo. A sera gli avieri dipinsero sulla toppa, come s’usa, il primo cerchietto tricolore, la prima stella di tutto un firmamento.

di Alessandro Pavolini

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