Mar Rosso. Le Medaglie d’Oro al Valore dei naufraghi del Manin

Le vicende della Marina Militare italiana nel Mar Rosso durante la seconda guerra mondiale sono note: con a disposizione poche navi delle quali parecchie antiquate e quasi tutte in scadenti condizioni, soprattutto senza poter riceve rifornimenti e rinforzi dalla madrepatria, questa flotta era praticamente condannata fin dal momento in cui scoppiò il conflitto.
In dipendenza di questa situazione le azioni di guerra non furono numerose anche se furono condotte senza complessi di inferiorità rispetto allo strapotere navale inglese, ma i risultati furono modesti: in tanti mesi di guerra si registrarono due navi mercantili e un caccia affondati e danni a qualche altra nave da guerra.
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Il cacciatorpediniere Manin

Da parte italiana le perdite furono invece elevatissime sia in dipendenza della scarsa efficienza delle unità, sia forse per la non eccellenza di comandanti ed equipaggi: tutti si dimostrarono eroi, ma ovviamente i migliori ufficiali e i migliori tecnici venivano trattenuti in madrepatria e non mandati in Africa.

L’epilogo, inevitabile, fu la graduale perdita di tutte le unità, con l’eccezione di alcuni sommergibili e della nave coloniale Eritrea che al momento della caduta di Massaua, grazie alla loro autonomia, riuscirono ad allontanarsi e a raggiungere basi amiche.

Fra le navi che si sacrificarono vi fu anche il cacciatorpediniere Manin; non era un’unità moderna essendo stata impostata nel 1924 e i vari lavori subiti nel tempo ne avevano fatto diminuire la velocità e l’autonomia. Faceva parte della Terza Squadriglia Cacciatorpediniere assieme ad altre unità gemelle.

Durante il conflitto partecipò a varie missioni ma tutte senza apprezzabili risultati.
Il 2 aprile 1941 le unità superstiti di quei mesi di guerra partirono per la loro ultima missione contro Port Sudan con la prospettiva, comunque fossero andate le cose, di autoaffondarsi non potendo più tornare alla base che sapevano di trovare occupata dagli inglesi.
Una per una tutte le navi furono perdute e toccò anche al Manin, il cui comandante decise di autoaffondare la nave dopo che era stata gravemente colpita e immobilizzata da bombe di aereo.
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Ibrahim Farag Mohammed

Si riuscirono a calare solo due scialuppe: erano sovraffollate, prive di motore, di viveri e strumenti nautici: una di queste, con a bordo il capitano di fregata Araldo Fadin, comandante del caccia e gravemente ferito, fu intercettata e recuperata dopo varie ora dagli inglesi: gli uomini vennero rifocillati, curati e avviati ai campi di prigionia.

Fra i naufraghi però mancava all’appello il sottufficiale ascaro di marina fuochista Ibrahim Farag Mohammed che dopo aver lasciato il posto che gli spettava a un marinaio ferito, era rimasto in mare per tutta la notte finché, perdute le forze e senza il più piccolo spazio per risalire a bordo, scomparve fra le onde: alla sua memoria fu decretata la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
L’altra scialuppa riuscì ad evitare tutte le insidie di quel mare pericolosissimo e la vigilanza del nemico: a forza di remi, dopo una settimana di pericoli, fame e sete, riuscì ad attraversare il Mar Rosso e ad approdare sulle coste dell’Arabia Saudita. Poiché il paese era neutrale, secondo le convenzioni internazionali non poteva lasciare i naufraghi in libertà, ma si limitò a trattenerli come internati militari, con uno status diverso rispetto ai prigionieri. Assieme a molti altri italiani e ad alcuni tedeschi che approfittando di varie circostanze erano riusciti ad abbandonare l’Eritrea, rimasero a Gedda, prima in città e poi furono trasferiti nella vicina isola di El Wasta. Ritornarono infine in Italia in occasione di uno scambio di prigionieri patrocinato dalla Turchia, anch’essa neutrale.

Fabio Gnetti in un’immagine degli anni ’60

Si era trattato di un’impresa difficilissima dovendo navigare quasi per intuizione e senza punti di riferimento ma, soprattutto, dovendo tenere a bada la disperazione degli uomini, provati dagli eventi e con quasi nulla da mangiare e da bere. Il successo fu dovuto alla persona che condusse con sagacia e determinazione i naufraghi fino alla salvezza e riuscì ad evitare loro la cattura: il sottotenente di vascello Fabio Gnetti.

Era un ligure nato nel 1915 nella frazione Solaro di Lerici e non era un ufficiale di carriera, ma uno dei tanti capitani marittimi di lungo corso precettati in occasione della guerra.
La sua impresa gli valse l’ammissione in servizio permanente e la Medaglia d’Oro al Valor di Marina conferitagli con Decreto del Capo Provvisorio dello Stato del 25 luglio 1947 con la seguente motivazione:
Affondata in combattimento l’unità su cui era imbarcato, prendeva posto con numerosi superstiti su una imbarcazione in precarie condizioni di stabilità e ne assumeva il comando. Superando difficoltà e pericoli indicibili, prodigandosi oltre i limiti dell’umana resistenza, riusciva a condurre in salvo 42 naufraghi dopo aver percorso in sette giorni di navigazione a remi di oltre 130 miglia, in condizioni micidiali di clima e aggravato dall’estrema scarsità di viveri e acqua. Nel corso della sovrumana impresa dava prova di coraggio e perizia marinaresca eccezionali, di esemplari virtù militari, di alto senso del dovere e di abnegazione. Mar Rosso 3 – 9 aprile 1941
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Un foglio con le firme dei naufraghi del Manin

Dato che che chi scrive queste note è figlio di un ufficiale di marina ed è stato ufficiale lui stesso, fin da quando era molto giovane ha sentito tante storie… Secondo quanto si diceva, per tutta la sua vita Fabio Gnetti tentò invano di far convertire la medaglia al valor di marina con quella d’oro al valor militare, ma nonostante quanto figura scritto impropriamente sulle tante fonti mediatiche, non riuscì nel suo intento perché la sua azione, che peraltro fu sempre considerata un’eccezionale dimostrazione di grandi capacità marinaresche e di comando, non era avvenuta sotto il fuoco nemico e non fu quest’ultimo, ma la natura, a mettere a rischio le vite di tutti.

Si trattava comunque di una medaglia d’oro al valore, e come si dice….”Scusate se è poco”.
Fabio Gnetti, con una solida preparazione nautica alle spalle e l’esperienza tragica ma formativa della guerra, fu integrato a tutti gli effetti nella Marina Militare, fece una bella carriera diventando ammiraglio, fino all’inevitabile epilogo che non risparmia ogni soldato: il congedo per limiti di età negli anni ’70 e la morte avvenuta nel 2003.

Stralcio di una pagina di un annuario della Marina Militare

Chi scrive lo conobbe bene: divenne infatti amico dei suoi genitori, di poco più giovani, ed abitava nella stessa casa, due piani sopra. Era una bella figura di militare, forse un po’ diverso dagli altri che avevano ricevuto l’educazione dei corsi normali dell’Accademia Navale e, rispetto al raffinato e un po’ stereotipato ufficiale di marina del passato, nel giudicare e nel parlare manteneva certi modi bruschi e decisi dell’uomo di mare tramandatoci da certa letteratura, ma che furono proprio le risorse essenziali per permettergli di portare in salvo tante vite.

Guglielmo Evangelista
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IMMAGINI
1- Il cacciatorpediniere Manin (Foto dell’epoca)
2- Il sottufficiale ascaro di marina fuochista Ibrahim Farag Mohammed
3- Fabio Gnetti in un’immagine degli anni ’60 (Da Internet)
4- Un foglio con le firme dei naufraghi del Manin (Dal blog “La Voce del Marinaio” . Foto Andrea Enea)
5- Stralcio di una pagina di un annuario della Marina Militare. Dai simboli convenzionali delle decorazioni si ha conferma che la medaglia d’oro era al valor di marina e non al valor militare

3 thoughts on “Mar Rosso. Le Medaglie d’Oro al Valore dei naufraghi del Manin

  1. salve
    storia interessante e toccante come molte altre compiute dai nostri militari durante la IIGM; sono un sottufficiale di Marina Militare in pensione (ero rt/ge ie ip) e ho avuto occasione di navigare anche in Mar Rosso toccando terra però solo a Djbuti.
    Dalla foto dell’Ascaro credo si tratti di un graduato di truppa, i gradi e la divisa sembrano quelli di un sottocapo e non di un sottufficiale …
    un saluto
    Piero e famiglia

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  2. L’immmagine, pur di fantasia perchè dell’interessato non esistono fotografie, è corretta. I gradi degli ascari e i relativi distintivi non erano esattamente quelli dei militari metropolitani anche se un’equivalenza di fatto era detttata dagli incarichi e dalle responsabilità di cui erano investiti.
    Il nostro era bulucbasci, più o meno sergente. I galloni, da braccio, erano vistosissimi e colorati in modo da sottolineare bene alla truppa indigena l’autorità di chi li portava

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  3. salve
    signor Evangelista grazie mille della risposta; sa mica se esitono pubblicazioni relative alle divise di queste truppe ? io ho qualcosa ma vorei saperne di più dato che, oltre all’interresse storico c’è anche quello dell’appassionato modellista …
    un saluto e grazie ancora
    Piero e famiglia

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