La filosofia del «Me ne frego!»

Nato come lazzo becero e gradasso, il «me ne frego» andato alla guerra, ne tornò nobilitato. Da goffo a fannullone, non appena vestì il grigioverde, acquistò coscienza d’essere un’affermazione di coriacità e di forza, contro destino e i malanni; e poi, avute per diritto di vocazione le fiamme nere, comprese d’essere un grido di azione.

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«Me ne frego» è facile pronunziarlo, ma non è facile farlo schioccare tra terra e cielo come una scudisciata. Chi lo spiffera tondo e faceto, a mo’ di pernacchio, può essere eloquente; ma perché il «me ne frego!» rintroni veramente, non nelle orecchie ma nel petto di chi ascolta (e deve esserne percosso e ferito), bisogna che scocchi senza enfasi. Mi spiego: l’enfasi nel «me ne frego!» è spesso una patina, una truccatura; una fischiettata prima di affrontare il buio; un sorso di rum a un passo dal pericolo. Per questo il «me ne frego!» gridato ai primi assalti, cantato durante i bivacchi, lanciato insieme alle bombe e alle sassate, divenne pian piano meno gergo, meno parola, e assurse a stato d’animo; dal cofano del camion dove era stato scritto con una ditata di sangue, si imbrigliò sul gagliardetto squadrista, fiamma nella fiamma nera.
Però il «me ne frego!» non può stazionare, restare ghirigoro, simbolo; e, quel che è peggio, ammosciare la sua virilità nocchieruta in retorica d’occasione. Guai! ricadrebbe nello sguazzo da cui sortì inzaccherando i pizzardoni di quel tempo, altrimenti detti, in linguaggio pudico, i «tutori dell’ordine». E allora, quel «me ne frego», suonerebbe ancora a ribellione sorda e vigliacca, a gradasseria rumorosa. E invece dev’essere, se mai, stoicismo: di quello che professò romano imperatore e il cui timbro tuonante, sul Monte San Michele, fu ritrovato, con il gesto della stampella, di Enrico Toti.
Per questo stimo che il «me ne frego» dovrà evolvere ancora: trovare, nel ritmo e nel clima della rivoluzione perenne, una sua progressiva perfezione.
Sarà sempre stoicismo, il suo, e, nel migliore senso della espressione una legge morale: ma riferita a scopi sempre meglio definiti in questa realtà da conquistarsi sempre di più, che si chiama: Patria e Fascismo.

Da un testo a firma Diciotto Bielle pubblicato su “Gioventù Fascista” del 30 giugno 1935. Giornale del P.N.F. Diretto da Achille Starace

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