1941. L’impresa eroica della fuga da Addis Abeba

di Gianmarco Maotini
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Fine di marzo 1941. Etiopia, Africa Orientale Italiana (AOI). Le sorti della campagna italiana nello Stato del Corno d’Africa sono ormai segnate e volgono verso il peggio,con le armate britanniche comandate dai Generali William Platt e Noel Beresford Peirse, che premono in maniera poderosa contro uno degli ultimi baluardi italiani in AOI, quello di Cheren.
Generale Nicolangelo Carnimeo

Generale Nicolangelo Carnimeo

A sua difesa, dimostrando un coraggio invidiabile, un abnegazione senza eguali e uno spiccato senso del dovere e di sacrificio, è l’armata italiana con i suoi ufficiali, sottufficiali, graduati, comandati dai Generali Nicolangelo Carnimeo – a detta di molti storici ,per ciò che dimostrò in tale battaglia, forse uno dei migliori Generali della seconda guerra mondiale – Orlando Lorenzini – caduto in battaglia il 17 marzo 1941 – e Luigi Frusci.

Questo manipolo di soldati italiani, consapevoli della superiorità tecnica e di uomini del nemico, consci di essere ormai in trappola e di essere rimasti con due sole possibilità, quella di morire o quella di essere fatti prigionieri degli albionici e dei loro alleati, diedero prova di immenso coraggio quasi come i 300 spartani alle Termopili, resistendo e combattendo duramente un assedio accanito contro le loro posizioni per ben 56 giorni, consapevoli del fatto che qualora i soldati di Sua Maestà fossero riusciti a travolgerli, avrebbero sia circondato, che isolato i capisaldi rimasti: Gimma, Gondar, Amba Alagi e le basi navali di Massaua e Assab. Ciò avrebbe provocato uno stravolgimento della linea del fronte e condizionato o troncato sul nascere eventuali manovre di sganciamento di altre armate italiane presenti nei pochi capisaldi rimasti e eventuali missioni di salvataggio tramite gli ultimi aerei rimasti di personale e di materiale delicato che era meglio non far cadere nelle mani del nemico.
Duca Amedeo D'Aosta

Duca Amedeo D’Aosta

Fu proprio per via di quest’ultimo punto delicato, che qualche giorno prima dell’inevitabile crollo del forte di Cheren il Duca Amedeo D’Aosta (il Duca di ferro o l’eroe dell’Amba Alagi), su indicazioni di alcuni consiglieri aeronautici, avallò l’idea che gli ultimi aerei da trasporto pesante Savoia Marchetti SM.73 tentassero una sortita provando a raggiungere prima la Libia e poi l’Italia con il proprio prezioso carico; circa 36 uomini tra piloti e specialisti di vario genere destinati ad una sicura prigionia.

A disposizione degli italiani per questa missione audace e di alto rischio, erano rimasti 3 Savoia Marchetti SM.73 dei 5 disponibili a giugno 1940 – I-NOVI, I-ARCO, I-VADO – . Gli altri 2 ,l’I-GELA e l’I-NOLA erano andati irrimediabilmente perduti: il primo distrutto a Gondar dagli inglesi il 3 febbraio e il secondo perduto dieci giorni dopo per un guasto al motore a 10 km da Asmara.
Il Duca D’Aosta conscio dell’ormai inutile valore per lo sforzo bellico dei tre aerei, non ebbe alcun tentennamento e dopo una settimana di dura lavoro da parte dei tecnici e degli specialisti dell’aeroporto di Addis Adeba, i velivoli con le insegne militari sostituite da quelle civili dell’Ala Littoria, con dei serbatoi supplementari a travaso naturale per aumentare la loro autonomia, erano pronti per il decollo.
L’inizio ufficiale di questa missione segreta e altamente pericolosa, ebbe inizio il 3 aprile 1941, quando alle ore 16:45 il 3 SM.73 pilotati da Max Peroli e Alberto Agostinelli, Giulio Cazzaniga e Rinaldo Fretti, Ludovico Riva Romano e Giudo Girassetti iniziarono a librare in aria alla volta dell’Italia.
Max Peroli. L'ideatore del piano di volo

Max Peroli. L’ideatore del piano di volo

Il piano di volo messo a punto da Peroli però, considerando la tratta lunga e difficile, era pieno di insidie e necessitava di almeno una sosta intermedia per il rifornimento. Sosta che secondo il piano del pilota italiano Peroli, sarebbe stata effettuata a Jeddah in Arabia Saudita. Il tutto reso possibile grazie al provvidenziale intervento del Ministero degli Affari Esteri italiano, che tramite un suo agente segreto in loco aveva sollecitato le autorità arabe riuscendo a strappare il loro assenso per l’atterraggio degli aerei italiani.

L’impresa però iniziò subito sotto i peggiori auspici, per il motivo che i tre aerei, logorati da mesi di servizio intenso, furono costretti ad atterraggi di emergenza: l’I-VADO a Dessiè, l’I-ARCO ad Assab e l’I-NOVI in pieno deserto dei Dancali, una vasta area di sabbia, a tratti inospitale ,sede dei vulcani Erta Ale e Dabbahu che si estende dall’Etiopia nord-orientale, all’Eritrea meridionale fino ad abbracciare gran parte dello stato del Gibuti. Nonostante la sorte avversa e perseguitati dalla sfortuna, gli equipaggi si misero immediatamente a lavoro per ovviare a questi problemi e dopo una sosta di un giorno riuscirono a ripartire verso l’Arabia Saudita.
Il loro arrivo suscitò immediatamente le dure proteste del consolato britannico, che iniziò immediatamente in maniera violenta ad accusare il paese arabo – governo neutrale – di aiutare e favorire gli italiani, quando invece avrebbe dovuto procedere arbitrariamente alla confisca dei velivoli e all’arresto immediato degli equipaggi. Una spiacevole e delicata situazione diplomatica che fu però, ancora un volta risolta con un lavoro diplomatico di intermediazione non indifferente e davvero notevole del console italiano con le autorità saudite dato che alla fine, Peroli e gli altri 5 eroici piloti italiani riuscirono ad avere diversi giorni per mettere a punto gli aerei, rifornirsi e ripartire alla volta della Madre Patria.
Vennero potenziate le caratteristiche di autonomia di ogni aereo visto il lungo tragitto ancora da percorrere, con l’installazione su ogni SM.73 di fusti di carburante aggiuntivi, che se da un lato furono ideali per espandere l’autosufficienza in volo degli aerei, dall’altro ridussero il già poco spazio dei passeggeri.
Nonostante però il lavoro certosino effettuato nei giorni precedenti, la malasorte non ne voleva sapere di abbandonare il manipolo di avieri italiani, in quanto durante la notte del 27 aprile mentre ci si preparava per il decollo, un motore dell’I-NOVI andò in avaria per la presenza della sabbia, costringendo ancora una volta i tecnici allo smontaggio, alla riparazione ed a ricorre per l’ennesima volta a tutta la loro professionalità, a tutto il loro genio, a tutta la loro preparazione e addestramento per questo genere di situazioni. Alla fine, nonostante i mezzi di fortuna e un tornio preso a prestito dai sauditi, il pistone che era a pezzi, venne riparato con l’acciaio prelevato da un vecchio aereo britannico abbandonato a Jeddah. Un operazione davvero di alto spessore tecnico e condotta in modo brillante e sublime.
Il 3 maggio, data fissata per la nuova partenza, una nuova tempesta di sabbia molto violenta scosse i già provati aerei intasando i carburatori e costringendo ad altre ore di fatica e all’impossibile gli italiani, che ancora una volta riuscirono a venirne a capo e rimettere i 3 aerei in condizione per il volo. Ormai però, il tempo stava per scadere! Gli inglesi infatti, avevano rinnovato con energia le loro proteste verso i sauditi, colpevoli a loro dire di permettere la fuga degli aerei italiani. Fu cosi che Peroli – che nel mentre era stato informato della liberazione di Bengasi da parte delle truppe italo-tedesche avvenuta il giorno dopo, in data 4 maggio – 3 giorni dopo, il 7 maggio decise di decollare e di tentare subito il tragitto più lungo fino alla città libica.
L’I-VADO ancora non era in condizione per il decollo, ma i tempi stringevano e non si poteva più rimandare!
Il viaggio infernale e con il sempre presente rischio di intossicazione per via delle esalazioni di benzina dei “casalinghi” serbatoi, dopo ben 10 ore di viaggio si concluse positivamente in quanto, sia l’I-ARCO che l’I-NOVI riescono ad arrivare a Bengasi. Qui il tempo di fare benzina e di effettuare controlli tecnici e meccanici sugli aerei, ridecollano alla volta di Tripoli in data 12 maggio per poi giungere il giorno seguente, dopo mille vicissitudini ad atterrare sulla pista dell’aeroporto di Roma-Urbe. Qualche giorno dopo fortunatamente anche l’I-VADO riusci ad alzarsi in volo e decollare alla volta della Libia.
Nella capitale d’Italia Roma, gli equipaggi ricevuti al Comando Supremo Italiano, fecero immediatamente rapporto della presenza di numerosi specialisti della Marina Militare a Jeddah, catturati dopo l’affondamento di alcune unità navali nel Mar Rosso e ricevettero tutti gli encomi per la loro audace e pericolosa missione, che li vide rispondere presente in un momento drammatico per le sorti dei nostri contingenti in AOI e che nonostante tutte le avversità del caso che gli si pararono contro scrissero una pagina delle tante pagine storiche di puro eroismo italiano nella seconda guerra mondiale, dove in genere si ricordano solo disfatte e ritirate dei nostri contingenti, con addirittura dei tratti di damnatio memoriae su imprese del genere che invece dovrebbero essere riportate alla luce e a conoscenza di tutti, per far conoscere e apprezzare il sacrificio di tanti giovani ragazzi che anche con la sorte a sfavore, osarono l’impossibile e ne uscirono vincitori.

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