“Peppino” la canzone di Venditti nata dopo un viaggio in Eritrea

Articolo tratto da TV Sorrisi e Canzoni  n° 20 del maggio 1992

venditti_eritrea_tv sorrisi e canzoni_1992Vogliono soltanto baci e carezze. Non chiedono altro allo straniero che li va a trovare gli orfani dell’Eritrea: bambini ai quali una lunga guerra ha tolto il calore di una famiglia, gli affetti più cari. Hanno bisogno di tutto questi bambini: ma neppure un lungo e sanguinoso conflitto, prima, e un futuro apparentemente senza speranza, poi, ne hanno fatto dei mendicanti.
Antonello Venditti era stato in Eritrea cinque anni fa, quando questo paese combatteva una lunga guerra fratricida contro l’Etiopia. E fra i tanti ricordi di quel viaggio straordinario, più di tutto gli era rimasto impresso l’incontro con “Peppino” un piccolo eritreo che il cantante aveva ribattezzato con il nome che dà il titolo a una delle sue canzoni più belle. E proprio al ritorno da quel viaggio, Antonello ha deciso che non avrebbe più abbandonato quei bambini, i tanti “Peppino” resi orfani dalla guerra. E oggi che il conflitto è finito, e l’Eritrea si appresta a scrivere una nuova pagina di storia, è tornato in questa terra, nella quale tanti anni fa aveva combattuto anche suo padre. Venditti, per aiutare concretamente gli orfani, nel febbraio scorso, dai microfoni del programma “I fatti vostri”, ha lanciato due appelli: ha chiesto che chi poteva mandasse aiuti a quei bambini ai quali mancava tutto. Hanno risposto, offrendo o propri prodotti oppure contributi in denaro, numerose grandi aziende (…) e gli aiuti, per complessive trenta tonnellate, sono stati mandati in Eritrea in parte con un aereo-cargo, in parte con una nave.
Un’operazione coordinata dall’Associazione amicizia Italia-Eritrea. Quella che segue è la cronaca del viaggio di Antonello Venditti per tre giorni nel pianeta orfani eritrei: come testimone della solidarietà che lega l’Italia a questo Paese e come garante che gli aiuti sono arrivati a destinazione. Il cantautore ne mostrerà le immagini anche nel varietà di Raiuno “Scommettiamo che…?” di sabato 16 maggio.
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ASMARA, una mattina di questa primavera. Arriviamo all’orfanotrofio quando i bambini stanno giocando in un grande cortile. Gli orfani ci vengono incontro cantando una canzone nella quale si riflette il dramma di tutto un popolo: “Noi figli/ di quelli che hanno combattuto/ e sono morti/ siamo orgogliosi dei nostri padri”. In questo orfanotrofio i piccoli sono in tutto 363, in età compresa tra i 4 e i 15 anni, e di loro si occupano 60 suore comboniane (un ordine religioso presente in Eritrea anche in altri quattro centri. Ginda, Embakala, Decamere, Senafe).
Sono bambini orfani di guerriglieri o i cui genitori sono morti per malattia. Yemanè Dawit, vicesegretario del ministero degli Esteri, ci accompagna nella visita e spiega: “Per i bambini noi abbiamo due obbiettivi. Il primo è il cosiddetto “Programma abbraccio”: ci proponiamo, cioè, di riunirli ai parenti che riusciamo a trovare perché possano crescere in una famiglia,magari quella degli zii o dei nonni. Il secondo obbiettivo è quello di trovare famiglie che si occupino di loro. Ma senza fondi…”
E così, in attesa che qualcuno dia loro il calore di una famiglia, di questi bambini si occupano gli “angeli bianchi”: suore comboniane che in Eritrea hanno speso tutta la loro vita. Come suor Gianantonia Cominelli, arrivata qui 34 anni fa. O come suor Rita Borghi, di Cantù, arrivata nel 1958 e che ha scritto anche una cronistoria dell’ultimo anno vissuto in Eritrea.
Nella prima pagina del suo diario, datata 13 maggio 1991, si legge: “La pace è ormai l’anelito di ogni cuore. La situazione in Asmara sta diventando insostenibile. Fame, miseria, paura… Ci sembra di essere in un tunnel senza uscita”.
Nell’ultima suor Rita annota: “È trascorso un mese da quando Asmara ha esultato per la pace. L’animo è aperto alla speranza che si realizzino le legittime attese di un popolo che ha tanto sofferto”. Ai bambini, spiegano le suore, mancano capi di vestiario, coperte, materassi. E poi sì, certo, mangiano tre volte al giorno: ma è un alimentazione povera, senza quelle vitamine di cui avrebbero bisogno. Dobbiamo fare un po’ di violenza a noi stessi per sfuggire agli abbracci, alle carezze, ai baci dei piccoli  eritrei. Guardano i nostri furgoni allontanarsi e ci salutano agitando le braccia. Non hanno chiesto nemmeno una caramella e ci hanno dato l’illusione di aver regalato loro scampoli di felicita’.
venditti4_eritrea_tv sorrisi e canzoni_1992KEREN, quasi quattro ore di auto dall’Asmara, orfanotrofio “La Limba”. In un’ex caserma vivono 450 bambini, dei quali si occupano 50 suore. Anche qui ci vengono incontro cantando. Non è però una filastrocca ma l’inno nazionale: “Tra noi faremo di tutto/per far conoscere il tuo nome/in tutto il mondo”. Sono bambini dai 4 ai 14 anni. La visita di un piccolo gruppo di stranieri è per loro un momento di grande eccitazione, di gioia irrefrenabile: abbracciano e baciano tutti, si lasciano prendere in braccio, vogliono farsi fotografare con Antonello, che sui bambini ha un ascendente particolare perché subito gli vanno incontro e poi non si staccano più da lui. La sera, al rientro all’Asmara, Antonello affida al mio taccuino queste prime riflessioni: “Quello che ho visto ha qualcosa di miracoloso. Questo paese ha conquistato la libertà da nemmeno un anno e in giro non si vedono ne’ soldati ne’ uomini armati. Stiamo assistendo alla nascita di uno Stato”.
MASSAUA, secondo giorno di viaggio. Una strada tortuosa, con un’infinità di curve e di buche, unisce questa città all’Asmara. Qui i segni della guerra sono ancora evidenti: edifici sventrati, carri armati e mezzi blindati abbandonati nei punti della città nei quali l’anno scorso si sono avuti i combattimenti più duri e sanguinosi. Raggiungiamo il porto, dove si stanno scaricando gli aiuti che arrivano dall’Italia. Ai piccoli eritrei arriverà dal latte omogeneizzato alle brioche per la colazione del mattino. Ma anche 77.000 tra biro e pennarelli, 20mila quaderni, 4 tonnellate di pasta, 7500 paia di scarpe (5500 per adulti, 2000 per i bambini), 2000 magliette, 1000 scatolette di fagioli e altrettante di tonno.
A colazione siamo invitati dal sindaco di Massaua, Musa Naib. Un’occasione, anche, per fare il punto sul presente e il futuro di questo paese. Uscita da una guerra durata circa 30 anni, l’Eritrea si prepara a vivere la straordinaria avventura della libertà che il dittatore etiope Hailè Mariam Menghistu al potere in Etiopia per 16 anni, fino al 21 maggio 1991, aveva sempre negato.
Nel 1993 un referendum in Etiopia riconoscerà’ formalmente l’esistenza di due paesi non più’ uniti con la forza ma separati in amicizia,e un referendum in Eritrea sancirà il nuovo assetto istituzionale: si passerà dal provvisorio di oggi al definitivo che aprirà un nuovo capitolo della storia di questo Paese. A guidare la fase del trapasso (e forse anche del futuro del nuovo Stato) sarà Afwerki, 46 anni, ex studente di scienze biologiche, un passato di guerrigliero che è stato la sua gavetta politica. Oggi è segretario del governo provvisorio eritreo, domani sarà il capo del nuovo Stato.
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Ritorniamo verso l’Asmara, rifacendo in salita la strada tutta curva che all’andata abbiamo fatto in discesa e a Embakalla ci fermiamo per la visita al terzo orfanotrofio del nostro viaggio.È un istituto piccolo, con circa 150 bambini dai 6 ai 14 anni. Su di loro “vigilano” con amore una trentina di suore, che per questi bambini sono tutto: come suor Stella Agosti, di Verona, in Eritrea da 32 anni; o come suor Adalisa Tomelleri, arrivata qui 45 anni fa. Tutti, bambini e suore, posano insieme davanti alla chiesa intitolata a Maria Immacolata, la chiesa dell’orfanotrofio. I bambini sono allegri o sereni, come tutti quelli che abbiamo incontrato. “Non chiedono nemmeno della loro mamma, non ne sanno nulla”, rivela una suora. Asmara, la sera. Fa freddo allo stadio, ma c’è più gente che per un importante incontro di calcio tra squadre locali. Antonello non è venuto qui per un concerto, ma non può rifiutarsi di far sentire alcune delle sue canzoni, dopo l’esibizione di un gruppo folk eritreo. E quando attacca con “Roma capoccia” la folla “esplode”. Canta anche “Sara”, “Le cose della vita”, “Ci vorrebbe un amico”. Sugli spalti applaudono giovani e meno giovani, ai bordi del campo applaudono gli invalidi (che in tutto il paese sono circa 20mila).

Dopo la serata allo stadio, a cena con il presidente Afwerki, Venditti affida al mio taccuino le ultime riflessioni. “Sono commosso”, mi dice, “perché per ascoltare me, che sono venuto qui solo a portare aiuti, gli eritrei si sono autotassati. Tutto quanto ricavato andrà agli invalidi, che sono entrati gratis, naturalmente. Degli eritrei mi ha colpito la grande serenità. Vivono come se non ci fosse mai stata una guerra. Non hanno odiato neppure i loro nemici etiopi: Menghistu ha combattuto una sua guerra, ma non era la guerra del popolo etiope contro gli eritrei. Mi hanno chiesto di continuare a occuparmi di loro. Lo farò, mi impegnerò subito, per esempio, a trovare 2500 materassi, che potrebbero risolvere un problema. E poi ho promesso che il giorno dell’indipendenza sarò qui per un grande concerto”.
La mattina dopo si parte. All’aeroporto ci salutano bambini con le bandierine. In tutti è impressa nella memoria una frase di suor Adalisa Tomelleri: “Adesso che avete imparato la strada per venire in Eritrea, tornate. Vi aspettiamo”.
 
 

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