Ieri abbiamo pubblicato un articolo de La Stampa del 1991 con l’intervista alla signora Gabriella fuggita da Mogadiscio con i due figli allo scoppio della guerra civile. Oggi abbiamo rintracciato la figlia che ci ha raccontato i suoi ricordi dell’inizio della guerra in Somalia e la fuga in Italia.

Ayan, italo-somala, viveva a Mogadiscio dal 1981, con sua madre Gabriella, contrattista all’Istituto di Cultura italiana a Mogadiscio, il fratello maggiore Dalmar e il padre Ahmed, ingegnere, laureato al Politecnico di Torino.
“All’epoca avevo 10 anni. Frequentavo la quinta elementare a Mogadiscio. La scuola era già stata chiusa da qualche giorno per sicurezza. C’erano stati i primi morti per le strade. Qualche sparo. Poi sono iniziate le cannonate, armi pesanti, vicino a casa.”
L’Ambasciata italiana a Mogadiscio si era subito attivita per organizzare l’evacuazione dei cittadini italiani, organizzando dei punti di raccolta sicuri.

Da Roma Ayan raggiunse Torino, ospite di amici di famiglia. Per la sua famiglia Torino prima era solo la meta delle vacanze estive, ora è la sua città, dove vive e lavora dopo aver conseguito una laurea al Multidams.
Oggi ha 37 anni. Ha pochi ricordi di Mogadiscio: l’asilo alla Casa d’Italia gestito dalle suore della Consolata, i week-end al mare a Merca o alla capannette dell’isola di Jesira. La sua infanzia è legata alle foto che spedivano ai parenti e agli amici in Italia.
Nel gennaio 91 sua madre dichiarò a La Stampa: “Gli italiani rimasti sono tre o quattro. Gli altri sono venuti via tutti con i soli vestiti indossati. Là hanno lasciato ogni cosa. Noi la casa appena costruita. Dal 2 gennaio non ho notizie di mio marito. Sono riuscita a fuggire da Mogadiscio. Lui è rimasto là.”

Le comunicazioni con Mogadiscio non funzionavano, le notizie erano scarse.
“L’estate del 91 partimmo per la Tanzania per cercare notizie di mio padre. Venimmo a sapere dai parenti che non era più rientrato a casa.”
All’epoca il dramma dei profughi e della guerra civile in Somalia passò in secondo piano. In Italia le prime pagine dei quotidiani parlavano solo della guerra del Golfo.
“Faceva più notizia. C’erano più interessi. Quelli degli americani. Poi hanno fatto il film “Black Hawk Down” e anche in Italia qualcuno si è accorto di noi.”
E oggi? “Ancora oggi in Italia non si parla di Somalia. A parte per gli ultimi grossi attentati. La stampa italiana non può tacere quando tutti i tg del mondo ne parlano. Qui i giornali sono pieni solo di notizie di politici che si scannano e di razzismo verso le persone che sbarcano. Perché non ci si chiede da dove arrivano e perché. Anche loro sperano in un futuro migliore, non puoi biasimarli.”
Un giorno vorresti tornare in Somalia? “Tornare no, ma mi piacerebbe rivedere i posti dove sono vissuta da bambina, anche se so che molti sono stati distrutti e non esistono più. La mia vita è in Europa. Sono e mi sento italiana.”

“Ogni tanto vado su Google Earth per rivedere quel che resta di casa mia e la strada che facevo da casa a scuola passando vicino all’arco del Principe Umberto. Ho scoperto proprio in questi giorni che è in fase di restauro. Sono contenta. Da qualche parte la ricostruzione deve iniziare, meglio se da un monumento storico. Anche se ogni tanto perdo la speranza. Sono talmente tanti anni che c’è la guerra che intere generazioni conoscono solo quella. Molti giovani l’unica cosa che hanno imparato è una situazione precaria, non sanno come vivere senza la guerra. Si deve insegnare alle nuove generazioni che non esiste solo la distruzione. Dietro ogni guerra ci il potere e gli interessi economici. Inoltre credo che la questione clanica in Somalia sia ancora molto forte.”
Quanta amarezza: ieri come oggi il governo italiano pare si sia voluto dimenticare della storia che lega i nostri paesi, quasi a voler cancellare un passato che invece torna, prepotentemente, a farsi sentire attraverso le storie di uomini e donne che rischiano di perdere la loro storia e identità nell’indifferenza dei mezzi di stampa.
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di © Alberto Alpozzi – Tutti i diritti riservati
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