La polemica politica che tiene banco negli ultimi giorni tra le forze politiche è quella legata al problema ‘migranti’ ovvero se sia il caso di continuare a farli sbarcare sulle nostre coste o se sia il caso di iniziare una politica di investimenti nei loro paesi di origine per limitarne i flussi in uscita ed evitare il dramma dello sradicamento. Anche in questo caso, la problematica non è nuova all’Italia, da sempre terra di conquista e di mescolanza tra i popoli che qui si sono avvicendati nei secoli.
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Ma parliamo di come l’Italia ha affrontato il colonialismo e le migrazioni durante il ‘900. Dopo la vittoria della guerra in Libia del 1911 che fruttò l’annessione della Tripolitania, della Cirenaica e il Dodecaneso, il governo liberale di Giolitti non si prodigò alla stesura di un piano che potesse migliorare le condizioni economiche e sociali delle popolazioni indigene. Turchi ed Arabi, a ragion veduta, per anni proseguirono la guerriglia anti-italiana che peggiorò con la conquista, a partire dal 1922 (per volere di Facta) fino al 1925, di diverse città: Misurata, Gefara, Gebel Nafusa e Garian.
Per dar vita ad un vero progetto unificante delle colonie dovremo aspettare il 1930. L’Africa Orientale Italiana fu il primo passo per costituire “l’Eurafrica” e quell’autarchia (non solo economica) che avrebbe reso l’Europa al pari delle altre superpotenze (Russia, Stati Uniti, Cina); progetto però sfumato con la perdita della Seconda Guerra Mondiale. Tornando al protettorato sulla Libia: con la legge del 3 aprile 1937 venne stabilito che su tutto il territorio, compreso quello del Sahara Libico, i terreni del patrimonio della Colonia, potevano essere dati in concessione (anche a titolo gratuito), a coltivatori italiani ed arabi per l’avvaloramento agrario in primis e successivo trasferimento di proprietà a canoni agevolatissimi.
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Il Governo italiano, solo nella Libia Orientale, nel biennio 1938-1939 investì oltre 295 milioni delle vecchie lire per effettuare lavori infrastrutturali, stradali, edili, idraulici; servizi da destinare alla popolazione italo/araba. Per effettuare i lavori sia in Libia Occidentale che in Libia Orientale venne utilizzata manodopera immigrata pari a 5.000 unità, operai assunti sul posto 4.650 e 23.500 manovali arabi.
Al termine dei lavori venne siglato il cosiddetto ‘Patto Colonico’: prevedeva la consegna, da parte dell'”Ente per la Colonizzazione”, di una casa, di un podere (vasto dai 10 ai 50 ettari), degli attrezzi e del bestiame in concessione per un certo numero di anni. In cambio, il colono doveva mettere a coltura il terreno e trascorso un periodo di salariato veniva messo a mezzadria (per un periodo in media di 5 anni). Al termine dei 5 anni previsti dal contratto, il colono veniva immesso in proprietà definitiva del podere ed ammesso al periodo di riscatto del podere stesso, previsto in un periodo massimo di 25 anni, riducibile facilmente se il lavoratore, ottenuto il miglior reddito del podere, voleva acquistare nel minor tempo la proprietà effettiva del terreno.
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Arabi e italiani erano muniti di regolare libretto colonico, sul quale scrivevano da una parte l’addebito delle spese mensili anticipate dallo Stato per le normali spese famigliari e dall’altra annotavano l’accredito della metà dei prodotti di spettanza colonica. A fine dell’anno agrario, le eventuali differenze a debito o a credito venivano portate a conto nuovo per l’annata agraria successiva. Per le famiglie numerose e provviste di sufficienti od esuberanti unità lavoratrici, era prevista l’assegnazione di un altro podere per un figlio o per i figli che si apprestavano a costituire un nuovo, solido, duraturo, nucleo famigliare.
Tra il 1938 e il 1939 milleottocento famiglie di contadini italiani si trasferirono nei milleottocento poderi libici preparati e finanziati dall’Ente per la Colonizzazione e dall’Istituto della Previdenza Sociale, muniti di casa a tre vani arredata (cucina, stalla, magazzino, porcile, forno, concimaia), con attrezzi, macchine materiali, mangimi e sementi, acqua, strade, centri agricoli o villaggi con gli edifici civili, religiosi e sociali necessari per i bisogni materiali e spirituali delle popolazioni.
Oltre 70 mila ettari di deserto irrigati e coltivati per realizzare la prima parte della nuova fase di civiltà in Libia. Gli autoctoni (libici) che si dedicavano maggiormente alla pastorizia vennero sistemati in piccoli fondi rustici prevalentemente costieri muniti di pozzi che assicuravano l’esistenza degli 800.000 capi di bestiame presenti in tutta l’area Orientale, con la prospettiva di un aumento delle greggi fino al loro raddoppio.
Per l’agricoltura araba invece il Governo, mediante una sezione speciale per l’agricoltura dei libici dispose che le provvidenze governative, anziché manifestarsi soltanto con la gratuita concessione dei terreni o coi contributi, prevedessero gli stessi vantaggi concessi a quelli stabiliti dalla legge per la colonizzazione metropolitana. Creò, quindi, villaggi arabi a Ras Hilal e all’Uadi El Atrum (comprensivi di 30 poderi ognuno di 1,5 ettari munito di casa colonica) dotati di moschea, mudiria, scuola, caffè, mercato e alloggi diversi.
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Scrive Carlo Basilici “E’ odioso e incivile lo sfruttamento, fine a sé stesso, del territorio conquistato, considerato come bottino. Impolitica la colonizzazione industriale-capitalistica che occupa un numero limitatissimo di dirigenti, di maestranze specializzate ed è costretta a richiedere un largo impegno d’indigeni. La storia coloniale del XIX secolo è larga di ammaestramenti. […] L’Italia s’è messa una volta ancora all’avanguardia delle Nazioni civili. O meglio si è messa contro corrente, orientata verso il segno giusto, la mèta vera, e deviando per ciò dal corso erroneo, odioso e incivile. Diciotto milioni di italiani in 58 anni, dal 1876 al giorno che il Regime bandì per sempre la politica emigratoria, donarono ad altri paesi tutti il lavoro e molti la vita. Appena la metà rientrarono in Patria, coi segni delle asperità sopportate, delle delusioni subite. E la Patria perse braccia, lavoro, energie. I ventimila rurali oggi protetti coloni di una terra nostra, se inalveati nelle correnti migratorie transoceaniche e continentali, angosciosamente guarderebbero all’avvenire, incerti del pane, del focolare, della stessa esistenza. Nessun canto avrebbe accompagnato la loro dipartita. Non la coscienza di una missione da compiere, non la certezza di un lavoro remunerato, non la presenza della loro donna e dei loro figli:ma la grigia pena della solitudine, l’amarezza di una vita spezzata che deve ricomporsi in un modo qualunque, l’arida nozione che il grande sacrificio è fatto al solo bisogno, sotto il pungolo della miseria. Questa la differenza, questa la redenzione”.
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