La concessione italiana di Tien-Tsin risale al periodo della rivolta dei Boxer. Nel 1901 l’Italia, avendo partecipato alla repressione dei ribelli insieme ad altre potenze europee, ottenne dal governo cinese il diritto di proteggere militarmente le proprie ambasciate e attività commerciali. Serviva un territorio nel quale dislocare truppe e diplomatici, e Tien Tsin era la città ideale: zona franca dal 1866, quando i Savoia sottoscrissero un Trattato di Commercio e navigazione con la Cina, vicina a Pechino, disposta lungo un fiume navigabile. La guerra contro i Boxers – nazionalisti cinesi che si ribellarono alle ingerenze delle potenze straniere in Cina – fu breve e cruenta (giugno-agosto 1900). Al conflitto parteciparono 2.000 soldati italiani, la maggior parte dei quali venne rimpatriata al termine dei combattimenti.
Gravi avvenimenti richiamano ancora verso la Qua l’attenzione del mondo. Dopo due secoli di inazione quell’immenso paese, ravvolto nella leggenda, cominciò a turbare l’Europa (o fu dall’Europa turbato) nel 1840, per la famosa questione dell’oppio, il risultato della quale fu la cessione di Hong Kong all’Inghilterra e l’apertura di cinque porti ai commerci internazionali. Aperta la breccia passarono per essa le nuove idee e si manifestarono i primi approcci di quelle infiltrazioni occidentali contro le quali si ebbero le sommosse del 1850, poi il bombardamento di Canton nel 1856 e successivamente le richieste delle Potenze per insediare a Pechino i loro rappresentanti. Infine la spedizione anglo-francese del 1860 per vincere le opposizioni del governo cinese a ricevere degnamente gli ambasciatori. L’occupazione militare della capitale obbligò infatti allora soltanto la Cina a pagare una indennità di guerra alle due Nazioni interessate ed a stipulare con esse una convenzione riguardante le Legazioni straniere da accettarsi e da rispettare nelle forme stabilite per tutti i paesi civili.
Dal 1882 al 1885 Cina e Francia si trovarono nuovamente di fronte per la questione del Tonchino e dieci anni dopo l’imperatore doveva fare appello alle forze vive della nazione per combattere una guerra aspra e sanguinosa col Giappone. La lotta ebbe termine col trattato del 17 aprile 1896, in virtù del quale l’impero del Mikado otteneva il possesso di Formosa, l’indipendenza della Corea e il rimborso delle spese sostenute. Il possesso della penisola coreana diveniva poi oggetto di contesa fra Giappone e Russia con vantaggio del primo e con l’affermazione di una nuova e grande potenza marittima e terrestre, decisamente minacciosa per l’integrità cinese. E’ noto come questi avvenimenti concorressero alla sottrazione alla Cina di tre importantissime località e cioè di Porto Arturo che fu ceduto alla Russia, di Wei-hai-Wei all’Inghilterra e di Kiao-Ciao alla Germania. Porto Arturo occupato poi dai Giapponesi fu invero restituito alla Cina riprendendo il suo primitivo nome di Dairen; Kiao Ciao fu strappato alla Germania il 6 novembre 1914 e ridato esso pure al governo cinese insieme allo Sciantung; e Wei hai Wei in conformità della promessa fatta dall’Inghilterra nel 1922 tornò al celeste impero il 1° ottobre 1930, ma tali restituzioni non valsero certamente ad arrestare il fatale disgregamento di quel paese nel quale confluivano ormai aspirazioni ed interessi stranieri. Il triste periodo che passò infatti subito dopo il 1895 segnò il punto di partenza verso questo progressivo accaparramento, intuito così chiaramente dalla vecchia imperatrice che credette di correre ai ripari spodestando l’imperatore, facendo decapitare gran numero di alti personaggi ed iniziando contro tutti gli stranieri indistintamente un deciso sistema reazionario. Tutto ciò produsse a sua volta una controreazione da parte dei Governi e dei privati che avevano già avviato i loro traffici in Cina e sopratutto delle banche e delle compagnie ferroviarie che avevano impegnato forti capitali nelle loro imprese.
L’avversione dei Cinesi contro le ferrovie si era già manifestata una prima volta nel 1876 quando gli Inglesi avevano costruito un modestissimo tronco di una dozzina di miglia per unire Shanghai allo scalo di Woosung, dove allora si arrestavano i piroscafi che non potevano rimontare il fiume. In quella occasione la popolazione distrusse la linea asportandone le rotaie ed il governo, di fronte ai lavori di riattamento della compagnia esercente, decise senz’altro di riscattare tutto l’impianto per procedere alla sua totale demolizione. Così quando, vent’anni dopo, la questione ferroviaria divenne una questione ancora più grave, il movimento xenofobo si accentrò in modo impressionante nell’elemento agricolo e commerciale che vide in esso la fine dei vecchi traffici, il rincaro delle derrate ed una conseguente crisi economica. La diffidenza latente si mutò pertanto in aperta ribellione e provocò la rivoluzione del 1900 contro le Legazioni che rappresentavano le rocche di ogni ingerenza e infiltrazione straniera. Il governo non avendo mezzi ed autorità sufficienti per tutelare l’ordine e salvaguardare le rappresentanze estere non si oppose allora allo sbarco di duemila marinai delle varie Potenze, agli ordini dell’ammiraglio Seymour. Queste forze ebbero il 12 giugno un primo scontro coi cosidetti boxers cinesi, nelle vicinanze di Tien Tsin. Il ministro plenipotenziario tedesco rimase ucciso, i cimiteri cristiani furono profanati, le Legazioni e i sudditi europei corsero in quel momento un grave pericolo.
Col nome di Boxers si chiamarono da allora tutti i cinesi contrari agli stranieri e per conseguenza anche quelle bande armate, che ricorsero a qualsiasi mezzo di offesa lecito o illecito, ma di fatto il nome stesso è d’origine incerta, probabilmente fu dato dagli inglesi, perché la principale fra le tante società segrete che aveva inalberato la bandiera xeno-foba e che guidò il movimento rivoluzionario era chiamata degli Iho-ciuan ossia degli uomini «dal pugno della giusta misura». Tali sintomi non sfuggirono agli Europei colà residenti ed alle varie rappresentanze diplomatiche e consolari, per cui anche il nostro Ministro marchese Salvago Raggi ebbe subito la sensazione di una gravita per la quale occorreva prendere le necessarie misure. Egli chiamò infatti a Pechino un distaccamento di marina comandato dal tenente di vascello Paolini ed a Tien Tsin un secondo distaccamento col sottotenente Ermanno Carlotto, della Regia Nave Elba.
Durante i mesi d’assedio che gli stranieri ebbero a sopportare in queste due città, i marinai italiani compirono indimenticabili atti di valore. Il tenente Paolini, benché con soli 28 uomini, fece parecchie brillanti sortite, catturando una batteria dei boxers che tempestava la Legazione. Ferito ad una spalla fu sostituito nel comando dal Segretario di Legazione, don Livio Caetani che spiegò parimenti un coraggio ed una serenità ammirevoli. Né meno ammirevoli di Lui furono in quelle tristi giornate il marchese Salvago Raggi e la sua signora. Il sottotenente di vascello Olivieri riuscì a liberare le suore seriamente minacciate nel convento di Paoting, difendendosi eroicamente dagli assalti dei nemici, i quali facendo brillare una mina lo costrinsero a rimanere coi suoi marinari per circa due mesi in mezzo alle macerie, fra le più dure privazioni. Le Missioni religiose erano infatti gli obiettivi contro i quali si accanivano maggiormente i boxers. In pochi giorni si contarono 92 vittime, fra cui il Vescovo Fogolla, monsignor Grassi, padre Crescitela, monsignor Fantosati ed altri ancora, che come padre Cesidio da Fossa fu preso e bruciato vivo. E con essi caddero pure uccisi o furono catturati e venduti più di 500 fanciulli degli orfanotrofi. Ma sopratutto è da ricordare la fine del sottotenente Ermanno Carlotto, della R. Nave Elba che sebbene ferito continuò a dirigere il tiro della sua batteria fino a quando, nuovamente colpito, cadeva da valoroso a Tien Tsin, destando l’ammirazione di tutti gli Europei e degli stessi Cinesi.
Estesasi intanto l’insurrezione in Manciuria e minacciate le comunicazioni ferroviarie che allacciavano la Cina alla grande linea siberiana, le Potenze stesse dovettero rinforzare gli esili contingenti di marina, disponendo senz’altro per l’invio di corpi d’operazioni composti di truppe regolari di terra. La Francia mandò due brigate, una di fanteria di marina ed una mista di fanteria di linea e di zuavi, in tutto circa 9.000 uomini; la Germania altre due brigate, un reparto di cavalleria, uno d’artiglieria, un battaglione del genio, cioè un corpo organico, detto «dell’Asia orientale » forte di 10.000 combattenti, l’Inghilterra, impegnata nel Transvaal, spedì due divisioni di truppe indiane, la Russia mobilitò i propri distretti di frontiera e organizzò un piccolo esercito di 12.000 uomini che poi fu in gran parte ridotto; il Giappone maggiormente interessato e sempre disposto ad approfittare della situazione inviò un intiero e ben organizzato corpo d’armata, e l’Italia i cui interessi erano alquanto minori mandò 2.000 uomini in tutto. Gli Stati Uniti d’America si unirono qualche settimana dopo alla grande spedizione inviando dalle Filippine due reggimenti per un totale di circa 5.000 uomini. L’Austria infine che non aveva altro motivo di intervento che quello di essere rappresentata, si limitò a mantenere nelle acque cinesi quattro torpediniere.
Tutte queste forze, sommanti a più di 50.000 combattenti con 160 cannoni e un migliaio di portatori (coolies) furono riunite agli ordini del Feldmaresciallo tedesco conte di Waldersee, il quale ne assunse il comando con un imponente stato maggiore composto di 30 ufficiali e 132 uomini di truppa (1).
Il corpo d’operazioni italiano, comandato dal colonnello Vincenzo Garioni del 24° Fanteria (che fu poi, col grado di generale di corpo d’armata Governatore della Tripolitania nel 1916), salpò da Napoli il 19 luglio 1900 su tre piroscafi noleggiati, il Sìngapore, il Minghetti e il Giava. Era composto di due battaglioni, uno di fanteria al comando del tenente colonnello Tommaso Salsa, formato da 4 compagnie tolte dalle Brigate Forlì, Cuneo, Modena ed Ancona; ed uno di bersaglieri comandato dal maggiore Luigi Agliardi, formato da compagnie miste tolte rispettivamente da 8 reggimenti. Inoltre era vi una batteria di mitragliatrici (capitano Alcide Vallauri) un distaccamento del 1° e 3° Genio (tenente Vito Modugno), un ospedaletto da campo (tenente medico Benvenuti) e un drappello sussistenza. Complessivamente 83 ufficiali, 1.882 uomini di truppa e 178 quadrupedi. Ufficiali di Stato Maggiore: il ten. colonnello Enrico De Chaurand e il capitano Antonio Ferigo. Era pure in Cina in quell’epoca il capitano di S. M. Luigi Dongiovanni (salito poi al grado di generale di corpo d’armata e che fu governatore della Cirenaica) il quale rimase colà fino al 1905 disimpegnando anche delicati incarichi diplomatici al Giappone. Fra gli ufficiali del battaglione Agliardi ricordiamo infine l’allora tenente Verri, quell’eroico comandante dei « Garibaldini del Mare » sbarcati per i primi a Tripoli, caduto ad Menni il 26 ottobre 1911 e decorato di medaglia d’oro al valore militare. Del contingente italiano fece parte inoltre, e con molto onore, anche un drappello di marina al comando del tenente di vascello Sirianni, che nel 1912 comandò poi una delle torpediniere che forzarono i Dardanelli e salì, più tardi, all’alta carica di Sottosegretario di Stato alla Marina. Il Sirianni si guadagnò per la sua condotta nella difesa delle Legazioni la decorazione dell’Ordine Militare di Savoia. La R. Marina organizzò inoltre durante le operazioni di quell’epoca un battaglione misto di riserva agli ordini del comandante Malusardi.
Prima di salpare da Napoli, il 19 luglio 1900, l’intero corpo di spedizione fu passato in rivista da Sua Maestà Re Umberto che volle personalmente portare il suo saluto ai partenti. Purtroppo quel saluto del Sovrano doveva essere l’ultimo ai suoi soldati perché quando il convoglio giunse il giorno 30 nelle acque di Àden vi apprese la ferale notizia dell’assassinio del Re.
Il 12 agosto la spedizione giungeva a Singapore, il 20 ad Hong Kong e alla fine del mese approdava nella baia di Taku, nella quale attendevano all’ancora, col tricolore al vento, simbolo della Patria, quattro delle nostre belle navi da guerra, Elba, Fieramosca, Calabria e Vettor Pisani. Commovente fu il saluto degli equipaggi, contraccambiato a gran voce dai compagni d’armi delle truppe di terra. Takù è alla foce del fiume Pei-ho. Da questa a Tien Tsin (il cui nome significa Porta celeste) vi sono 40 chilometri in terreno basso e paludoso, sul quale sorgono alcuni forti.
Dopo uno sbarco lento e difficile, le truppe proseguirono in ferrovia e, pochi giorni dopo iniziarono, insieme ai contingenti europei, le operazioni contro la città di Paoting per punire i colpevoli di massacri colà avvenuti. La città fu trovata deserta e devastata dagli insorti; la marcia fu ripresa su Pechino, dove i reparti italiani occuparono il palazzo d’estate e il suo incantevole parco.
Nell’autunno successivo ebbero luogo quelle operazioni su Kalgan, al confine della Mongolia, nelle quali gli Italiani si distinsero moltissimo. Fra i fatti d’armi più importanti ricorderemo quello del 2 ottobre per la presa dei forti di Schauguau, il combattimento notturno di Cunausien del 3 novembre e le operazioni che si svolsero presso la grande muraglia insieme ai contingenti inglesi, nonostante il freddo intensissimo e purtroppo anche l’equipaggiamento dei nostri soldati, non adatto per quei paesi, onde il comando italiano dovette ricorrere ai comandi delle varie Potenze per avere delle pelliccie. E’ d’uopo segnalare a questo proposito che da tutti i comandanti esteri fu sempre manifestata in questa, come in moltissime altre circostanze, la più viva ammirazione per la resistenza, l’abnegazione e il valore dei nostri ufficiali e delle truppe di terra e di mare. E possiamo aggiungere anche per il rispetto alle proprietà, giacché è bene non dimenticare che all’atto della partenza dalla Cina gli Italiani restituirono intatto il palazzo d’estate che avevano occupato, con tutte le sue meravigliose suppellettili.
Pacificate intanto le cose, una parte del contingente italiano rimpatriò nel giugno del 1901 ed un’altra parte l’anno seguente quando il 5 febbraio 1902 fu conclusa la pace. Rimase tuttavia in Cina un battaglione misto agli ordini del maggiore Salsa, sostituito poi dal maggiore Ameglio, per garantire insieme a qualche reparto alleato le comunicazioni fra Pechino e Tien Tsin. Quest’ultimo scaglione partì poi esso pure per l’Italia nel maggio del 1905. L’imponente spedizione internazionale aveva ottenuto lo scopo di riaffermare al cospetto dei Cinesi il prestigio delle Legazioni ed aveva mantenuto aperti i porti al commercio mondiale.
I delegati delle Potenze presentando una nota al principe Cing nella quale avevano esposto i motivi dell’intervento, ottennero inoltre l’invio di un principe cinese in missione diplomatica a Berlino, l’erezione di un monumento sul posto dove era stato ucciso il ministro tedesco Ketteler, la punizione di numerosi capi colpevoli di rivolta, la ricostruzione dei cimiteri cristiani e delle tombe profanate, il risarcimento dei danni ai privati e la libertà dei traffici.
Leggi qui la SECONDA parte dell’articolo “Cina, la concessione italiana dimenticata a Tien-Tsin”
di Vito Zita – © Tutti i diritti riservati
Note
(1) AMEDEO TOSTI – La Spedizione italiana in Cina. Uff. Storico Stato Maggiore, 1926
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