La domenica 11 gennaio 1948 per i residenti a Mogadiscio fu una tragedia: 54 italiani civili massacrati e 55 feriti. Molti anche i somali uccisi, 14, tra i quali Hawo Tako, che cercarono di proteggere gli italiani, più 43 feriti.
La Somalia post-coloniale era in attesa di una nuova amministrazione che la preparasse all’indipendenza: un’amministrazione contesa tra inglesi e italiani. QUI LA STORIA
Pubblichiamo la tragica testimonianza di Elvira Maragliano, all’epoca una bambina di 9 anni, trascritta nel 1998 con il contributo della madre Anna, che quella tragica domenica la visse in prima persona.
Sebbene siano trascorsi cinquant’anni e fossi, all’epoca, una bambina di nove anni, serbo tuttora il ricordo di quella tragica Domenica, 11 gennaio 1948. Le settimane precedenti tale data furono caratterizzate da manifestazioni anti e pro Italiani.
Tutto questo avveniva perché era imminente la visita dei rappresentanti delle grandi potenze che avrebbero deciso a quale paese, Inghilterra o Italia, sarebbe stata affidata l’amministrazione fiduciaria, della Somalia. A favore degli Inglesi erano gli appartenenti alla Lega dei Giovani Somali (Somaly Youth League), che la maggior parte di noi Italiani chiamava “quelli del club”.

La nostra “boyessa” Fatuma, che c’era molto affezionata, ci guardò preoccupata, forse immaginava che le cose sarebbero degenerate o forse aveva già appreso qualcosa da altri Somali che passavano. Rivolgendosi a mia madre disse che non poteva permettere che ci succedesse qualcosa di brutto e che sarebbe andata a cercare aiuto. Uscì di corsa dal cancello e si diresse verso la Villa del Colonnello Thorne che si trovava quasi di fronte alla nostra abitazione. Mentre attendevamo che essa tornasse, udimmo, terrorizzati, altre grida provenienti dal fondo della strada. Mio padre aveva già imbracciato uno dei fucili da caccia e si apprestava ad andare in soccorso di coloro che urlavano, quando Fatuma tornò con uno dei boys del colonnello, che si offri di nasconderci in casa del colonnello stesso, ma nel medesimo tempo si fece consegnare il fucile da mio padre. Mio padre avvisò allora i nostri vicini, che nel frattempo erano saliti sulle terrazze delle rispettive abitazioni, di riunirci tutti a casa del Colonnello Thorne dove saremmo stati più al sicuro. I miei genitori e mia nonna, che in quei giorni si trovava pure a Mogadiscio, raccolsero i generi di prima necessità e ci avviammo quindi verso la casa di fronte. Fummo raggiunti, dopo poco tempo dai nostri vicini. I domestici del colonnello ci fecero accomodare nel soggiorno.
Eravamo tutti terrorizzati, sentivamo che gli spari e le urla erano sempre più vicini al luogo in cui ci trovavamo.
Poi verso le 14:00/15:00 (è difficile ricordare l’ora esatta, ma era senz’altro nel primo pomeriggio) questi atroci rumori cominciarono a scemare fino a cessare quasi del tutto.
Fu allora che tornò e fece la sua apparizione nel soggiorno di casa sua il colonnello Thorne. Chiese subito ai suoi domestici, con indignazione, cosa ci facessero quegli Italiani a casa sua. Dopo la risposta del suo boy prese la cornetta del telefono e fece una telefonata.

Fummo condotti, attraverso le vie di Mogadiscio, dove in quel momento regnava un silenzio di morte, fino all’ospedale “De Martino”. La trovammo molti altri Italiani, tra i quali parecchi feriti. Sul volto di tutti erano dipinti dolore e paura.
Quella era, forse, la prima volta che alcuni di noi si trovavano in una condizione così tragica. Venimmo a sapere che molti Italiani, fra cui anche donne e bambini, erano stati massacrati barbaramente, a fucilate o a coltellate, da Somali appartenenti al famoso “club”. Alcuni furono uccisi per strada, mentre tornavano dalla messa, altri nelle proprie abitazioni. Alcune donne furono stuprate, davanti a figli e mariti prima di essere uccise. Fu in seguito confermato che gli Italiani uccisi erano 53, molti erano feriti e molti altri erano riusciti a trovare rifugio nella Cattedrale e nel compound “De Vincenzi”.
All’ospedale De Martino le suore assegnarono una camerata per ogni gruppo di persone, e ognuno di noi aveva a disposizione un materasso disteso per terra. Il luogo era lugubre, il cibo immangiabile, le condizioni igieniche terribili, ma eravamo VIVI!
C’era un giovane medico in quell’Ospedale, il dottor Leonardo Basiricò, che ora vive a Roma. Il Dott. Basiricò dimostrò in quell’occasione di aver scelto il suo mestiere come una missione. Curò i feriti e coloro che, avevano bisogno d’assistenza ininterrottamente, per più di tre giorni senza mai dormire né riposarsi un momento.
Molti dei sopravvissuti devono a lui la vita, ed io desidero ricordarlo a tutti coloro che lo hanno conosciuto e che, come me, lo hanno avuto come medico per il resto della loro vita in Somalia, poiché è stato ed è una persona da non dimenticare mai. Siamo rimasti al “De Martino” per diversi giorni, poi parecchie famiglie hanno trovato una sistemazione migliore presso amici che abitavano alla periferia della città (nel nostro caso fu, la famiglia Ignudi a ospitarci).
Era, infatti, sconsigliabile tornare a casa per coloro, che abitavano in alcune zone della città, come il Viale XXIV Maggio, dove erano i cosiddetti villini Zoni e dove era avvenuta la maggior parte della strage, la Via Antonio Cecchi e la zona sul retro della cattedrale e quasi tutto il resto della città. Siamo stati via dalle nostre case per parecchi giorni, poi, quando tutto è tornato alla normalità siamo rientrati nelle nostre abitazioni e abbiamo continuato a vivere in quella terra che, nonostante tutto, amavamo. Elvira
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L’Italia Coloniale ringrazia Elvira e Enrico Maragliano
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