“Salutano il Tricolore i nuovi ascari” è la copertina di EPOCA del 6 dicembre 1952 dedicata all’AFIS “Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia”. È l’aprile 1950 quando l’Italia torna nella sua ex colonia su mandato Onu, benché, come nazione sconfitta nella seconda guerra mondiale, non facesse ancora parte delle Nazioni Unite.
Riproponiamo il servizio del novembre 1952 con foto a colori di Lino Pellegrini.
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Mogadiscio, novembre.
Arrivo a Mogadiscio pochi giorni prima dell’eccidio di Chisimaio che avvenne, come si ricorderà, il 1° agosto: le nostre forze avevano tentato d’impedire una dimostrazione non autorizzata, della Lega dei Giovani Somali e nei tumulti che ne seguirono caddero due sottufficiali dei carabinieri e un soldato della stessa arma. Quando dal capoluogo dell’Oltre Giuba si diffonde per la Somalia la notizia, cerco di correre verso sud. Da Mogadiscio stanno per partire le autoblinde, sta per partire un convoglio comandato dal maggiore Migliorini.
«Ma non avrà posto », mi dicono. «Migliorini… Giuseppe?» chiedo. «Un ragazzo alto coi baffetti, che ha combattuto in Etiopia e ch’ebbe una gamba spezzata da una pallottola abissina?» «Appunto». «Allora il posto ce l’avrà» replico al mio interlocutore.
Mi metto in caccia di Migliorini, lo incontro, e ci abbracciamo. Lo avevo conosciuto tenente, quando, con la gamba malandata peregrinava dagli ospedali militari all’Istituto Rizzoli: cose di sedici anni fa. Un vecchio amico, dunque; ed è proprio lui a comandare il «Quarto», cioè il quarto battaglione, dove si sta sviluppando il germe del futuro esercito somalo. Le macchine e le autoblinde galoppavano attraverso un paesaggio monotono di acacie ombrellifere e di cespugli spinosi. Di quando in quando si sostava, gli uomini scendevano: erano somali, impeccabili e fieri da parer soldati nati.
Ma soldati non nascono, nascono guerrieri: ciò che, implica differenze sostanziali. Superare queste differenze tocca ai nostri istruttori. Paragonavo quei soldati ai pastori della loro stessa razza che, forse ogni cinquanta o cento chilometri, andavamo incontrando a lato della pista: gente alta, agile, bella, elegantemente avvolta nella futa. Nomadi armati di lancia, passano la vita nella boscaglia, conducendo mandrie di vacche e cammelli ai pascoli, fra stagni e pozzi; si battono per l’abbeverata del bestiame se l’acqua scarseggia; sono abituati a lottare contro il leone e il leopardo con l’arma bianca, insidiano l’elefante con frecce avvelenate; curano le malattie tagliuzzando generosamente la cute perché col fluire del sangue svanisca l’essenza del morbo; contro la fame e la sete prendono latte, alimento essenziale; tutta la loro vita è ossessionata dalla sete. Da questi nomadi, che un turista non esiterebbe a definir selvaggi, l’Italia deve trarre i soldati d’un esercito relativamente moderno, e gli ufficiali capaci di comandarlo: perché, gran parte della Somalia vuol dire nomadi, condizioni di vita primitive e boscaglia, tranne i centri abitati.
È un duro compito quello degli italiani. L’ONU ci ha assegnato la nostra ex colonia per un periodo di dieci anni a partire dal 1950, perché venga preparata moralmente e materialmente all’indipendenza nazionale. È dubbio che un territorio miserrimo, ampissimo, spopolato e arretrato come la Somalia, possieda le condizioni necessarie per essere nazione; tuttavia, questa è la decisione dell’ONU. L’Italia ha accettato il compito, quindi deve svolgerlo.
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Fedeltà e capacità
Entro l’aprile del 1960 dobbiamo creare la Somalia indipendente. Una delle sue basi, saranno le forze armate. E aggiungerò: nel generale scetticismo circa la vitalità e la consistenza del futuro Stato, il settore delle forze armate appare forse il più saldo. È merito nostro, merito attuale e retrospettivo. Prima della guerra avevamo costituito in Somalia un eccellente corpo di truppe coloniali, zaptiè e dubàt, cioè polizia militare e guardie confinarie: son reparti ai quali non si sarebbe potuto chieder di più, e che tuttora sono circondati d’un alone quasi di leggenda. Gli ordini impartiti agli zaptiè venivano eseguiti matematicamente: se un ospite di riguardo era affidato alla sorveglianza d’uno di loro, questi non abbandonava il suo protetto neppure nei momenti più delicati della giornata, e, di notte, si sdraiava davanti alla porta o alla tenda di lui, fucile alla mano. Dire a uno zaptiè «attendimi qui», e scordarsene, significava ritrovarlo in quello stesso posto, a distanza magari di ventiquattr’ore. Quanto ai dubàt, eran gente che arrischiava spesso la propria virilità, oltre alla vita, negli scontri di frontiera. Con la presenza dell’Italia, le virtù guerriere dei somali vennero dunque educate; ma, da allora e da oggi al 1960 la differenza sarà basilare, poiché alle truppe somale mancherà il comando italiano. Tutti sanno del tipico processo involutivo che affligge determinati popoli dopo la partenza degli occidentali; noi facciamo del nostro meglio perché le conseguenze del fenomeno abbiano a verificarsi, tra le forze armate della Somalia, nella minima misura possibile.
Anche a questo scopo, il nucleo dell’esercito si basa soprattutto sui «vecchi», sugli sciumbasci baffuti, che spesso portano al petto intere filze di nastrini. La fedeltà e la capacità guerriera di alcuni di loro è provata dall’ultima campagna: cominciarono a combattere nell’Oltre Giuba, respinsero la tentazione di arrendersi mentre noi abbandonavamo la Somalia, ripiegarono con noi attraverso l’Etiopia sino all’Amba Alagi, dove con noi ricevettero dai vincitori l’onore delle armi. Tornati in Somalia restarono fedeli alla vecchia bandiera.
Fu uno degli sciumbasci, Mohammed Giumale, a promuovere la sfilata di quindicimila somali davanti a quella commissione dell’ONU che contemporaneamente dovette constatare il massacro di cinquantun italiani; i quindicimila somali chiedevano il ritorno dell’Italia, e i massacri gravarono sui nostri nemici col peso dell’onta. L’Italia, tornò qui anche per merito d’uno sciumbasci; saranno loro, i marescialli indigeni di una volta i primi ufficiali del nuovo esercito.
Essi vengono istruiti in una aula del «Quarto». Stanno seduti, ai loro banchi intenti alla lezione; alcuni hanno inforcato gli occhiali per vedere meglio quanto un nostro tenente disegna sulla lavagna. Gente di quaranta e cinquant’anni. Sul banco tengono un quaderno, di tanto in tanto scrivono sotto dettatura. Scrivono non male o anche bene; debbono assimilare concetti d’una certa difficoltà. Per esempio, il somalo non capisce agevolmente in che cosa consistano due rette parallele, perché il parallelismo esula dal paesaggio della Somalia. Poi, studiare a quaranta o a cinquant’anni i principi generali e particolari del tiro d’artiglieria, riesce gravoso chiunque.
Sono però intelligenti questi somali. Come cultura geerale s’esige da loro all’incirca quella della terza elementare italiana; quanto a cognizioni tecniche, soprattutto d’armi e di guida, siamo sulla stessa base dei nostri sottufficiali, ed anche dei sottotenenti. In più, s’insegna l’arabo, perché la lingua somala è parlata ma non scritta, mentre l’arabo rappresenta un patrimonio intellettuale abbastanza diffuso fra i somali più colti. Alla fine dei corsi, che durano sei mesi ciascuno, si ha un periodo applicativo, col comando fittizio di compagnie, e l’incombenza della contabilità. Dopo di che, i marescialli dichiarati idonei divengono aspiranti; i dieci primi aspiranti sono già stati promossi il mese scorso, e un’altra quindicina verrà sfornata nel giugno prossimo. Per esser sottotenenti occorre frequentare un altro corso teorico-pratico di un anno, e un altro corso presso i reparti.
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Ufficiali di colore
E quando finalmente i «vecchi» avranno terminato di studiare e di lavorare, il modesto grado conseguito possiederà un valore tecnico indiscutibile. Certo, non cercheremo in Somalia l’ufficiale superiore o di Stato Maggiore formato all’europea; ma gli ufficiali somali creati sotto la nostra scuola saranno indubbiamente fra i migliori ufficiali di colore dell’Africa.
Alla scuola per marescialli s’affianca una seconda istituzione destinata come la prima a produrre i quadri del futuro esercito: il collegio per figli di militari somali, fondato con le oblazioni volontarie degli ufficiali italiani dislocati qui. A diciassette anni, i giovani si recheranno in Italia come aspiranti sottufficiali; in seguito saranno aspiranti ufficiali, e compiranno i corsi previsti per gli attuali marescialli. Un’altra forma di istruzione militare si svolge attraverso i corsi per specialisti dell’aeronautica.
Trattamento generoso
Tutti i 2500 somali oggi in servizio possiedono una cultura tecnica proporzionata al loro grado, siano soldati, graduati, o sottufficiali. Inoltre, il criterio dell’arruolamento a carattere prolungato o quasi permanente determina anche nei soldati semplici una forma di professionismo militare ch’è condizione di addestramento e d’istruzione continui.
L’intera Somalia conta solo un milione d’abitanti, perciò le sue necessità militari sono soddisfatte sin da adesso, sia numericamente sia in senso tecnico. I contingenti somali del cosiddetto Corpo di Sicurezza conoscono le armi moderne. Sono in grado di pilotare su qualunque terreno i semoventi. Si servono, con Sicurezza di comando e di impiego, dei mortai leggeri e di quelli da 81. Sanno eseguire tiri con artiglierie ‘di medio calibro, ciò che implica un corredo di nozioni teoriche e un complesso di esecuzioni pratiche tutt’altro che indifferente, fra telemetri, radio, problemi balistici.
L’aver riassunto in servizio, al nostro ritorno in Somalia, quegli ex militari che già conoscevamo a fondo, non ha mancato di produrre i migliori risultati. Purtroppo, la politica influisce anche sul futuro esercito somalo. Il quale, si sta inevitabilmente chiedendo se sia il caso d’essere amici dell’Italia, quando la «Lega dei Giovani Somali» ha goduto da parte nostra, pur essendo nemica, d’un trattamento generoso. Se questo trattamento dovesse dare una impressione di debolezza, domani potrebbe anche accadere che la minoranza leghista conquistasse con la violenza il dominio sull’intera Somalia. In questo caso meglio varrebbe l’italofobia anziché l’italofilia. Si può temere, ‘in altri termini, che nostri eventuali errori, per eccesso di liberalità e d’esempio democratico, possano portare a un pericoloso spostamento dell’esercito a lato dei Giovani Somali. Sarebbe una triste conclusione.
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Il “campo famiglie”
Non perché l’esercito somalo debba essere italofilo ad ogni costo, ma perché, allo scadere del mandato, noi speriamo di vedere riconosciuta la nostra opera attraverso il rispetto degli italiani residenti in Somalia.
Se non fosse così anche molto del nostro lavoro e del nostro sacrificio economico andrebbe perduto.
Per ora si tratta di semplici ipotesi più che di realtà; e l’affiatamento fra ufficiali italiani e truppe somale dà la sensazione d’un’organicità esemplare.
Tutte le truppe sono motorizzate; soldati e sottufficiali vengono trattati con particolare generosità: a lato del centro di addestramento abbiamo ricostruito il cosiddetto «campo famiglie », che, secondo le usanze locali, permette ai militari di raggiungere moglie e figli appena terminato il servizio.
La religione musulmana consente più d’un matrimonio, e parecchi di questi militari possiedono più d’una moglie; le usanze però non consentono che le varie mogli abitino col marito, se la prima sposa non è d’accordo. L’Italia ha accettato queste usanze.
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Resistenza fisica
Chiedendo a questi militari se abbian moglie anche fuori del «campo famiglie», parecchi risponderanno di sì, con un misto di timidezza e d’orgoglio che corrisponde allo squilibrio fra due religioni e due psicologie. Timidezza, perché di fronte ad un europeo il possesso di due o più mogli può esser motivo di sottaciuta critica; orgoglio, perché la poligamia è sinonimo di ricchezza, e di benessere: le mogli costano parecchi cammelli, e d’altra parte lavorano sempre umilmente per il marito.
Accanto al futuro esercito, la Somalia dispone della polizia. Il primo, l’abbiamo creato interamente noi, italiani, la seconda è nata durante l’occupazione britannica, e l’Inghilterra l’ha lasciata come eredità impegnandoci a mantenerla in vita. Gli impegni sono stati rispettati al punto che gli unici licenziamenti si riferiscono a individui responsabili di colpe gravi. Inevitabilmente il corpo di polizia continua a risentire della sua origine. Porta con decoro l’uniforme, è disciplinato, efficiente, ma da molti sento avanzare riserve sulla sua fedeltà. Eppure proprio un ispettore di polizia cadde per aver eseguito gli ordini, massacrato dai Giovani Somali di Chisimaio. I funzionari di polizia conservano il cappellone alla boera e il titolo di ispettore, come se fossero ancora al servizio dell’Inghilterra.
La polizia si trova agli ordini della nostra Amministrazione, e provvede anche alla sorveglianza delle frontiere. Altri nuclei armati, di consistenza modesta, vengono reclutati direttamente dalle varie Residenze, con compiti locali: si tratta degli ilalo, che, proprio nella delicatissima circostanza di Chisimaio, dimostrarono la loro fedeltà. Gli ilalo sono talvolta figli o parenti di capi, la loro efficienza dipende soprattutto dalla perfetta conoscenza della zona e dei suoi abitanti, e dall’incrollabile resistenza fisica. A un gruppo di ilalo si può ordinare di camminare attraverso la boscaglia per cento chilometri. Così, dopo l’eccidio, gli ilalo si misero in caccia dei massacratori sparsi nella boscaglia; riuscirono a ripescarne parecchi perché sapevano con esattezza dove costoro avrebbero potuto rifugiarsi; inoltre, ci fornirono informazioni preziose. Anche nei giorni più critici, chi sorvegliava giorno e notte l’abitazione del residente e del commissario di Chisimaio, non furono reparti di militi nazionali, bensì, gli ilalo silenziosi e fedelissimi. Quando rientravamo in casa durante il coprifuoco, l’ombra della sentinella si profilava nel giardino; quell’ombra destava un senso di fiducia assoluta, riusciva a far dimenticare la ferocia dei leghisti.
Accennavo ai militari nazionali : molti hanno passato in Africa interi decenni. Il generale Ferrara, comandante del Corpo di Sicurezza, noto a tutti i militari d’Africa e amico di tutti loro sin da parecchi anni prima della guerra; la moglie del generale è asmarina, e Ferrara stesso conta di ritirarsi in Eritrea„ il giorno in cui lascerà le armi. Gli ufficiali giovani son tutti volontari; così pure i soldati; spesso venuti quaggiù per ricalcare le orme dei padri dai quali sin dall’infanzia avevano sentito parlare soprattutto d’Africa. Il totale dei nostri militari ammonta appena a ottocentoventi unità. Dunque, ottocentoventi nazionali, più duemilacinquecento somali, più un «battaglione mutilati » (composto quasi tutto di sciumbasci e di bulukbasci) di seicento uomini, dei quali però soltanto un quarto presta servizio, e senz’armi.
Vecchi contrasti
Risulta così che noi amministriamo la Somalia con un complesso di militari inferiore ai quattromila uomini, con poche blinde e con pochissimi. carri. E potrebbero esser meno, se non ci fosse di mezzo l’ostilità della Lega dei Giovani Somali. I reparti nazionali di Marina provvedono al servizio dei fari e a quello delle comunicazioni radio; inoltre hanno istituito una «scuola di navigazione» per somali. L’Aeronautica militare addestra gli specialisti indigeni, disimpegna un paio di linee con l’Oltre Giuba e con la Migiurtinia, mantiene efficiente al traffico dei quadrimotori il campo di Mogadiscio, cui fa capo la nostra linea civile in partenza da Roma ogni settimana. Gli apparecchi militari dislocati in Somalia svolsero un eccellente lavoro quando l’eccidio di Chisimaio costrinse ad inviare immediati rinforzi nell’Oltre Giuba: in quell’occasione le truppe somale vennero trasportate per aereo, dando subito la misura della nostra organizzazione e della nostra forza. In quegli stessi giorni i marinai di Mogadiscio si prodigarono, riuscendo a fare tanto i marconisti instancabili quanto i soldati in linea. Chi potrà finanziare l’esercito della Somalia indipendente? Su quali basi intellettuali e tecniche poggerà il paese, dopo la nostra partenza? I vecchi contrasti fra cabile non saranno sufficienti a minare la consistenza già debole del nuovo organismo? E i quesiti potrebbero continuar senza fine. Ma la risposta non dipende da noi. L’Italia sta facendo assai più di quanto le sue possibilità le consentirebbero.
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