L’8 aprile 1941 la base navale di Massaua si arrese alle forze inglesi né avrebbe potuto fare altrimenti perché era ormai un “guscio vuoto” poiché tutte le unità delle Forze Navali del Mar Rosso a volte da settimane, a volte da alcuni giorni, avevano abbandonato il porto facendo rotta verso una salvezza lontana oppure erano partite per le ultime missioni che si erano concluse con l’affondamento o con l’autoaffondamento.
Era rimasta solo una congerie di piccole unità e ausiliarie utilizzate per i servizi di minore importanza, quasi tutte vecchie e malandate anche se quelle che mantenevano un minimo valore bellico vennero sfruttate fino all’ultimo nei limiti delle loro possibilità.
La torpediniera Orsini, con le poche artiglierie superstiti (alcune erano state smontate e utilizzate per la difesa del fronte terrestre) contribuì a bombardare le colonne inglesi in avvicinamento, mentre i MAS 213 e 216 usciti in missione poche ore prima della caduta della base erano riusciti ad attaccare e danneggiare pesantemente l’incrociatore inglese Capetown, azione resa ancora più brillante se si pensa che già prima della guerra di queste piccole unità, costruite nel 1918, era stata decisa la radiazione visto che galleggiavano solo perché i buchi nel fasciame in legno erano stati otturati con colate di cemento e la loro velocità era ormai ridotta a poco più di quella di un peschereccio.
All’avvicinarsi del nemico a Massaua fin dai giorni precedenti tutte queste unità minori si autoaffondarono in porto o furono portate nelle isole Dahlac facendo poi la stessa fine, con l’eccezione del MAS 206 che nella mattinata dell’8 aprile, fidando nella tenuta approssimativa dei suoi motori, tentò di raggiungere le coste dello Yemen: intercettato dal nemico dovette rientrare e, senza equipaggio e con il timone bloccato, fu lanciato su di una scogliera dove si sfasciò.
Ma non è di queste navi che vogliamo parlare: la loro fine è riportata accuratamente in molte fonti e i loro relitti affondati in acque basse sono oggi meta di subacquei. Approfondiremo invece alcuni fatti concomitanti e successivi all’arrivo degli inglesi, assai meno noti.
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Secondo fonti inglesi gli ufficiali giunti per parlamentare lo avrebbero trovato ad aspettarli comodamente seduto su una sedia a sdraio, suscitando una disgustata sorpresa per l’accoglienza poco formale.
Si racconta anche che l’ammiraglio avrebbe tentato un gesto plateale, cioè spezzare la propria sciabola sul ginocchio: il tentativo però sarebbe andato a vuoto e l’avrebbe gettata in mare dove fu recuperata e poi sarebbe stata esposta in un museo a Karthoum.
Ammesso che il primo episodio sia autentico – e non è detto che lo sia veramente – fu male interpretato: l’ammiraglio con il suo gesto avrebbe voluto dimostrare di accogliere il nemico vittorioso solo perché dotato di più mezzi e di più armi senza alcun timore riverenziale, con la flemma di chi “ha duemila anni di storia alle spalle”: una provocazione per suscitare la stizza degli inglesi, pienamente riuscita.
Poi, molto signorilmente, fece accompagnare gli avversari al circolo ufficiali, dove dettero loro da bere. Invito accettato volentieri: gli inglesi non si smentiscono mai….
Il secondo episodio è invece frutto di fantasia, inventato da una fonte dimostratasi inattendibile: è solo una delle tante fandonie messe in giro per screditare gli italiani facendoli sembrare guitti da avanspettacolo. Inutile dire che in un porto minato e piuttosto profondo il nemico aveva tutt’altre preoccupazioni che cercare una sciabola, che infatti non ricomparve e tanto meno risulta essere mai stata esposta in un museo.
Corrisponde invece a verità il fatto che gli inglesi si impossessarono di ben cinque navi italiane rimaste a galla e intatte: tre cisterne e due cannoniere.
Disguido nell’eseguire gli ordini, fuga precipitosa o connivenza col nemico? Niente di tutto questo e, soprattutto, nessuna “coraggiosa” cattura.
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Le tre navi cisterna, le gemelle Sebeto e Sile, che tra l’altro erano fra le unità più moderne presenti a Massaua e il piccolo Bacchiglione furono lasciate volutamente in condizioni operative: da anni la loro funzione era quella di rifornire d’acqua la popolazione dell’arcipelago delle Dahlac e di alcune altre località costiere.
Furono quindi presi accordi specifici e per una volta tanto gli inglesi si mostrarono comprensivi, probabilmente anche perché prevedevano che, come già gli italiani, avrebbero distaccato una guarnigione nelle isole che, indipendentemente dalla bandiera, senz’acqua avrebbe avuto i suoi problemi .

Il Porto Corsini fu ribattezzato General Platt dal nome del generale comandante delle truppe che avevano occupato Massaua e continuò con la sua attività precedente, cioè il rifornimento di combustibile e di materiali ai fari e agli altri impianti di segnalamento: con le insidie dei fondali del Mar Rosso era un servizio che, come quello dell’acqua, non poteva essere interrotto.

Sembra che durante gli anni successivi nessuna di queste navi abbia mai inalberato la bandiera inglese.
A fine guerra le navi dell’Eritrea non ritornarono indietro: bisogna considerare che dopo anni di servizio nel clima di Massaua e impossibilitate a qualsiasi lavoro di manutenzione mancando nel porto bacini di carenaggio (quelli galleggianti erano stati autoaffondati nel 1941) e mancando anche pezzi di ricambio dovevano trovasi in condizioni di efficienza molto menomate e in ogni caso impossibilitate ad affrontare una navigazione fino in Italia: nel 1946 vennero amministrativamente radiate e gli inglesi le misero in vendita per la demolizione che avvenne a Massaua nello stesso anno.
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Caratteristiche delle navi abbandonate efficienti o ripristinate a Massaua
Costruttore |
Dislocamento tonnellate |
Lunghezza-Larghezza-immersione |
Velocità massima nodi |
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Sebeto |
Cantieri Navali del Quarnaro 1933 |
602 |
m 36,27×8,5x 5 |
9 |
Sile |
SAVINEM Venezia 1933 |
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Bacchiglione |
Alessandria d‘Egitto1927 |
80 |
m 23×5,5×1,2 |
7,5 |
Porto Corsini |
Unyu Osaka 1912 |
290 |
m 31×5,35×2,15 |
8 |
Biglieri |
Deutsche Werke Amburgo 1924 |
667 |
m44,92×7,5×3,81 |
9
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Alcune notizie inedite sono estratte da “La sciabola invitta” di Enrico Cernuschi. In”Rivista dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia” n. 7-8 2020
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di Guglielmo Evangelista
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