Le ostilità tra Regno d’Italia ed Impero Ottomano per il possesso della Libia terminarono ufficialmente il 18 ottobre 1912 con la firma del Trattato di Losanna. Al di là delle questioni formali però la guerra continuò in Tripolitania e Cirenaica dove le popolazioni arabe ed i turchi più irriducibili non avevano alcuna intenzione di accettare i termini della pace continuando così la resistenza.
Gli ufficiali in servizio presso l’Ufficio politico-militare del Comando italiano di Tripoli, già qualche mese prima del Trattato di Losanna, avevano iniziato una importante analisi relativa al sostanziale insuccesso nella “politica indigena” e nella tessitura dei rapporti con i capi delle kabile e con i maggiorenti arabi delle città costiere. La mancata comprensione dei complessi meccanismi socio-tribali arabi – da ascriversi ad una certa superficialità con la quale il Ministero degli Esteri aveva affrontato questioni d’importanza capitale in quelle terre come la corretta definizione giuridica del “califfato” nella prima fase della guerra, almeno fino al dicembre 1911 – aveva spinto le autorità italiane ad instaurare immediatamente rapporti di tipo verticale e burocratico con i capitribù ed i leader delle numerose sette religiose presenti in Tripolitania e Cirenaica senza assicurarsene prima la fedeltà.
La breve resistenza opposta dalle guarnigioni regolari turche lungo i centri costieri e l’accoglienza pacifica – ma decisamente troppo tiepida e passiva – della popolazione alle truppe italiane illuse il governo di Roma; i rapporti dal fronte parlavano di “pieno sostegno” dei civili alle autorità militari. La rivolta generale della popolazione araba ed il suo appoggio alla prima controffensiva turca, culminata con il rovescio di Sciara Sciat, furono accolte con viva sorpresa dagli analisti con le stellette dell’Ufficio politico-militare.
Date queste premesse, l’idea di un reclutamento e di un impiego di truppe locali al nostro fianco venne presa in considerazione solo dopo qualche tempo visto lo scetticismo con la quale fu accolta questa ipotesi nei circoli politici e militari italiani. Attrarre la popolazione dalla propria parte, “comprarne il consenso” per certi versi, era diventato per gli italiani non più rinviabile e furono perciò considerazioni squisitamente politiche a favorire la nascita dei primi reparti coloniali libici.
Il tipo di guerra che si stava combattendo, con il nemico padrone dell’entroterra e capace di rapide sortite offensive ed altrettanto rapidi ripiegamenti nel deserto, e la necessità di facilitare la costituzione dei reparti imposero ai comandi italiani il reclutamento di bande irregolari senza una ferma prefissata anziché di truppe regolari inquadrate come gli ascari eritrei e somali.

Capo di una banda irregolare libica (1912) – Illustrazione di Andrea Viotti
Le truppe delle bande non avrebbero posseduto uniforme né sarebbero state sottoposte alla ferrea disciplina dei reparti regolari, sarebbero inoltre state utilizzate esclusivamente per compiti locali senza alcuna idea d’impiego in profondità. La “politicizzazione” delle decisioni relative alla formazione delle bande libiche si nota specialmente in quest’ultimo punto: a fronte della presenza della gendarmeria turco-araba dei centri costieri (transitata armi e bagagli al servizio degli italiani) con funzioni locali di polizia e mantenimento dell’ordine pubblico, non vi era alcuna necessità di utilizzare per gli stessi compiti truppe irregolari ed indisciplinate la cui unica garanzia di fedeltà era data dalla puntualità con la quale veniva versata dagli italiani la paga pattuita. La ricerca spasmodica del consenso tra gli arabi aveva scavalcato ogni considerazione di carattere militare.
Le necessità di stabilizzare il territorio attraverso accordi vantaggiosi con le kabile, che avessero consentito ai capitribù di inserirsi all’interno del nuovo meccanismo di potere italiano, e di coinvolgere gli indigeni con un ruolo operativo nella macchina bellica coloniale furono le due problematiche, una d’ordine politico e l’altra d’ordine militare, con cui l’Ufficio politico-militare di Tripoli (e le sue diramazioni periferiche) dovette confrontarsi nell’ambito della “questione bande”, dossier affidatogli dal Comando generale del Corpo di spedizione.
Le tribù del Garian e dell’area di Tarhuna e Misurata erano quelle che più di tutte, fin dall’inizio della guerra contro l’Impero Ottomano, avevano tenuto una linea filo-italiana concordemente ispirata all’idea che Roma dovesse estendere sulla Tripolitania e sulla Cirenaica il suo diretto dominio senza formule intermedie come il protettorato o l’autonomia di facciata. Questo perché il sistema di potere turco-ottomano in Libia orbitava attorno agli oligarchi tripolini e bengasini; un cambio di regime, fosse anche espressione di una Potenza europea, avrebbe favorito un ricambio della classe dirigente consentendo finalmente ai capitribù di emergere.
I responsabili dell’Ufficio politico-militare fecero leva proprio su questo sentimento di rivalsa dell’elemento tribale filo-italiano (oltre che ad una sostanziosa distribuzione di denaro) per spingere i capi a combattere, assieme ad un nucleo iniziale di uomini fidati, sotto le insegne italiane. L’idea alla base della richiesta era questa: a fronte della presenza di uomini armati appartenenti alle tribù locali più fidate, anche altri arabi sarebbero stati spinti a sostenere gli italiani cosicché si sarebbe ottenuto il doppio risultato di ampliare il consenso in favore dell’Italia ed il controllo capillare del territorio.
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Federico Sirolli con i gradi di tenente colonnello degli Alpini (1917)
Anche se l’ordine del giorno n. 88 del Comando del Corpo di spedizione aveva reso noto già il 24 febbraio 1912 la costituzione di un nucleo armato di 60 arabi con funzioni di sicurezza e polizia nella zona del Sahel al comando del capitano dei Carabinieri Reali Torquato Andreini, residente (il responsabile di una sezione periferica dell’Ufficio politico-militare) dell’omonima area, fu con il successivo ordine del giorno n. 91 del 27 febbraio che fu istituita, sotto il nome di “nucleo di armati indigeni”, la prima banda, quella del Garian, dipendente dal Comando di piazza di Tripoli e comandata dal tenente degli alpini Federico Sirolli, futuro eroe pluridecorato della Guerra di Libia e della Grande Guerra.
Il tenente Sirolli, ufficiale del 6° Reggimento Alpini, si era già distinto nello scontro di Aghib e nella battaglia di Assaba (23 marzo 1919) contro le milizie turco-arabe guidate dal senatore ottomano e signore di Jefren Suleiman-El-Baruni. Nonostante vi fossero molti ufficiali presenti sul teatro delle operazioni da più tempo di Sirolli (che era arrivato in Libia a febbraio assieme al suo reggimento alpino), egli fu scelto dall’Ufficio politico-militare come comandante della prima banda libica per l’acume politico e le qualità umane e di comando dimostrate; un ufficiale comandante di banda irregolare araba avrebbe dovuto infatti rispondere a caratteristiche ben precise, già valide per i comandanti delle truppe coloniali eritree e somale.
Nelle bande il ruolo e la figura dell’ufficiale comandante erano assai diversi ed assai più importanti di quelli rivestiti nei reparti nazionali poiché privi com’erano di elementi di raffronto e motivati anzitutto da ragioni economiche e d’interessi clanici, i libici – come gli altri militari indigeni – per rendere sul campo in maniera adeguata dovevano avere piena ed illimitata fiducia nel loro comandante, che non doveva essere solo un capo militare – ed i libici erano molto esigenti in materia – ma doveva pure essere in grado di venire incontro alle loro più svariate esigenze ed essere il giudice, il consigliere o, come usavano dire i soldati arabi, il padre di ogni membro della banda.

La banda del Garian occupa postazioni di tiro sugli alberi su ordine del tenente Sirolli (1912)
Sottoposti del tenente Sirolli nella Banda del Garian erano ben 5 capi, cinque sottocapi e 120 gregari dotati di 5 cammelli da trasporto, dieci tende, dieci ghirbe, 50 zappette e di recipienti per impastare visto che i gregari dovevano provvedere direttamente al proprio cibo.
Il 3 marzo 1912 a Tripoli i membri della Banda del Garian prestarono giuramento di fedeltà sul Corano e due giorni dopo l’unità uscì per la prima volta in ricognizione a sud est di Tagiura dove era segnalata una forte presenza di milizie turco-arabe del ribelle El-Baruni. Già nel corso di queste ricognizioni tra i palmizi la Banda diede buona prova di disciplina: all’ordine di Sirolli di disporsi nelle “trincee aeree”, i miliziani si arrampicarono sulle piante dell’oasi con il fucile spianato alla ricerca del nemico. L’immagine fu riprodotta anche su una copertina de “L’Illustrazione italiana”.
La zona del Garian, con capoluogo Tagiura, non poteva dirsi pacificata; nonostante nella battaglia di Assaba gli italiani avessero inflitto una sonora sconfitta ad El-Baruni, le continue scorribande dei ribelli nelle oasi avevano messo in evidenza quanto fosse difficile tenere sotto controllo la regione che, per di più, risultava essere d’importanza strategica vista la sua vicinanza a Tripoli e la presenza delle vie di comunicazione stradali e carovaniere che portavano alla frontiera tunisina. Il 17 aprile la Banda del Garian ebbe il battesimo del fuoco negli stagni dell’oasi di Tagiura: una forte colonna turco-araba con elementi a cavallo fu agganciata dagli uomini di Sirolli e messa in fuga dopo un violento combattimento. Nei giorni successivi la Banda del Garian fu impiegata in altri combattimenti contro le forze di El-Barani ed alla fine del mese un ordine del giorno del Comando del Corpo di spedizione portò la sua forza a 200 uomini mentre l’11 maggio fu rafforzata la Banda del Shael (capitano Andreini) ed approntata la costituzione di una terza banda nella zona di Tarhuna con l’obiettivo di unificare al più presto il comando delle bande alle dipendenze di un unico ufficiale che potesse dare loro un indirizzo comune per quanto concerneva organizzazione e funzionamento.
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Suleiman El Baruni, leader della resistenza libica e signore di Jefren
Il 7 maggio il tenente di fanteria Felice Pomponi sostituì Sirolli al comando della Banda del Garian mentre l’ufficiale degli alpini fu nominato residente dell’Ufficio politico-militare con competenza nella regione delle oasi e sede a Garian. Compito di Sirolli era quello di impedire agli agenti di El-Barani di fomentare la rivolta tra gli abitanti delle oasi. L’ufficiale italiano, scortato da miliziani arabi delle bande, entrò a Garian qualche giorno prima che le truppe nazionali la occupassero e vi impiantò la residenza dell’Ufficio politico-militare senza colpo ferire. Mantenere le oasi in rivolta era fondamentale per El-Barani in quanto l’area costituiva il naturale cuscinetto per impedire agli italiani di avanzare sulla sua roccaforte Jefren, centro berbero arroccato a 700 metri di altitudine nell’altopiano del Gebel Nafusa.
La fine opera politico-diplomatica del tenente Federico Sirolli consentì agli italiani di occupare pacificamente il Garian e di poter marciare con le spalle coperte contro Yefren sopprimendo la rivolta di El-Barani nel maggio del 1913. Per la sua condotta Sirolli, nel frattempo promosso capitano, fu decorato della croce di cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia con la seguente motivazione: “Capitano nel 6° Alpini per la valorosa condotta da lui tenuta nello scontro di Aghib, nel combattimento di Assaba ed in parecchie ricognizioni, e per l’energia, l’arditezza, l’intelligenza e la calma con cui affrontò e superò le difficoltà e i pericoli dell’impianto della residenza a Garian, precedendovi di alcuni giorni l’occupazione delle truppe, mentre la situazione militare e politica, tuttora incerta, minacciava di aggravarsi. Con fine tatto seppe successivamente guadagnarsi tutti i capi della regione, rendendola ben presto tra quelle a noi più devote, malgrado gli insistenti tentativi di El Baruni per sollevare quelle popolazioni. La sua opera politica permise prima di occupare colle truppe pacificamente la regione del Garian e favorì dopo, efficacemente, l’avanzata su Yefren” (Tripoli e Garian, novembre 1912-maggio 1913).

Fucile Vetterli 1870 e baionette
Vale poi la pena aprire una parentesi sull’equipaggiamento e l’armamento delle bande irregolari libiche e dei loro ufficiali comandanti. I membri delle bande, a prescindere dal grado e dalla funzione ricoperta, indossavano il tipico costume locale composto da una kamis (camicia) alla quale era sovrapposta la parasia (una ampia veste tagliata a camicia con maniche molto larghe) avvolgendo poi tutto il corpo con un telo rettangolare chiamato haik le cui origini risalivano addirittura alla dominazione romana e che era il segno distintivo delle popolazioni arabe e berbere nella regione delle oasi. Sul capo i miliziani indossavano la tachia, il tipico copricapo nordafricano, ornato con una bandierina tricolore italiana, indossata generalmente solo dai capi ma che l’iconografia popolare ha reso un ornamento comune a tutti gli irregolari libici reclutati nell’ultima fase della Guerra italo-turca. La tachia delle bande del Garian e di Tarhuna era ornata da un fregio costituito da due piccozze incrociate sormontate da una stella a cinque punte. L’armamento delle bande era costituito dal fucile Vetterli mod. 1870/87 con relativa baionetta ma, sovente, anche del fucile mod. 1903 turco e del tedesco Gewher 98 sottratti agli ottomani.

Pistola Glisenti mod. 1910 per ufficiali
Gli ufficiali italiani comandanti delle bande irregolari libiche indossavano la nuova uniforme grigioverde mod. 1909 con gambali o fasce mollettiere; qualche ufficiale però, come da usanza tra le truppe indigene di Eritrea e Somalia, indossava un’uniforme in tessuto bianco fuori ordinanza. Come copricapo gli ufficiali avevano o il berretto regolamentare con il fregio dell’arma d’appartenenza o il casco coloniale in sughero mod. 1887 con coccarda tricolore e fregio dell’arma d’appartetenza. Non è raro trovare documentazione scritta o fotografica che attesti l’utilizzo del velo azzurro avvolto attorno alla fascia dell’elmetto (accessorio codificato per l’alta uniforme coloniale) da parte degli ufficiali comandanti di truppe indigene in Libia anche in combattimento, altra prassi ripresa dai colleghi dei reparti coloniali di stanza nel Corno d’Africa. L’ufficiale comandante di reparto indigeno era armato di sciabola mod. 1888 e pistola Glisenti mod. 1910 o revolver Bodeo mod. 1889.
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di Filippo Del Monte
– S. Ales – P. Crociani – A. Viotti, Struttura, uniformi, distintivi ed insegne delle truppe libiche 1912-1943, Voll. I e II, Stato Maggiore dell’Esercito Ufficio Storico, Roma, 2012
Gli Ordini Militari di Savoia e d’Italia, Vol. III, Associazione Nazionale Alpini (a cura di), 2012
– Degni della gloria dei nostri avi, Vol. IV, Associazione Nazionale Alpini (a cura di), 2018
– R. Catellani – G. Stella – C. Riccardi, Soldati d’Africa. Storia del colonialismo italiano e delle uniformi per le truppe d’Africa del Regio Esercito Italiano, Vol. II (1897-1913), Albertelli Editore, 2004
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