Il Convegno coloniale del 1917

Trasformazioni del pensiero coloniale italiano nel corso delle Grande Guerra

Bollettino della SAI datato 1888Nell’aprile del 1917 si tenne a Napoli il Convegno nazionale coloniale organizzato dalla Società africana d’Italia (SAI) con lo scopo di rimettere in primo piano le questioni coloniali passate in secondo piano rispetto a quelle irredentistiche nel corso della guerra. La Società africana d’Italia era stata fondata in Eritrea nel 1882 per impulso di ufficiali del Regio Esercito e di funzionari coloniali di stanza nella baia di Assab, all’epoca unico possedimento coloniale («microscopica colonia» l’aveva definita Pasquale Stanislao Mancini) italiano per influenzare la classe politica e l’opinione pubblica ad intraprendere una più audace e decisa politica africana che portasse ad una espansione nel Mar Rosso. La Società africana d’Italia, per il suo carattere “apartitico” e legato all’apparato burocratico della Colonia eritrea sposò fin da subito una linea più radicale di quella degli “africanisti” parlamentari e tramite il suo Bollettino ufficiale anticipò temi quali la colonizzazione demografica ed il dibattito sul diretto dominio che sarebbero poi stati cavalli di battaglia del nazionalismo corradiniano.
 
Francobollo della Società africana d'Italia (1928)Egemonizzata successivamente dai nazionalisti e trasformata in una sorta di centro studi politicizzato, la Società africana d’Italia accolse con entusiasmo la guerra di Libia, tant’è vero che al Congresso dell’Istituto Coloniale Italiano (ICI) del 1911 furono proprio i membri della SAI a sostenere l’approvazione d’una mozione che esortava il governo ad occupare la Tripolitania per affermare in esclusiva i suoi diritti sulla quarta sponda. La guerra scoppiata nel 1914 portò ad una spaccatura ben visibile anche nel mondo coloniale dove l’imperialismo britannico e quello tedesco furono interpretati come due modelli profondamente antitetici; l’Italia come “patria del diritto” e paladina d’un imperialismo “romano” non avrebbe potuto fare altro che schierarsi con i “civilizzatori” dell’Intesa contro i “barbari sfruttatori” germanici.
 
Quando l’Italia l’anno successivo entrò in guerra, gli ambienti colonialisti apportarono il loro contributo al dibattito sul movente ideologico-culturale dell’intervento innervando nel tronco del mito risorgimentale irredentista i rami del mito imperialista:  nelle finalità che venivano assegnate alla guerra l’irredentismo nazionale sfociava di fatto nel colonialismo nazionalista. Un ordine del giorno della Società africana d’Italia del 1915  anticipò per forma e contenuti il programma massimo di rivendicazioni che sarebbe poi stato stilato dal Ministero degli Esteri. Nel Convegno napoletano del 1917 fu ripresentato ed approvato questo ordine del giorno ma la questione relativa all’espansione coloniale italiana ed al significato da dare alla guerra fu approfonditamente discussa anche alla luce dell’evoluzione politico-militare del conflitto e dei contributi sul tema di insigni esponenti dell’imperialismo italiano.
Del 1917 sono infatti due scritti fondamentali provenienti dagli ambienti della SAI: “L’avvenire coloniale d’Italia e la guerra” del magistrato nazionalista Savino Acquaviva e “La nostra pace coloniale” di Giuseppe Piazza. Acquaviva invitava a non “impicciolire” la guerra «soltanto alle rivendicazioni dei termini sacri che natura segnò alla patria» perché avrebbe significato non comprendere la natura profonda del conflitto che era anzitutto scontro tra blocchi imperiali per la conquista della ricchezza e del prestigio politico. Il «travaglio psicologico» del popolo italiano nel maggio 1915 e le energie profuse nella guerra rischiavano di essere mal interpretate e mal indirizzate se politica ed opinione pubblica non fossero entrate nell’ottica della “guerra imperiale”. Gli faceva eco Piazza quando scriveva che la guerra italiana più che un fine era un presupposto ed una «condizione necessaria per quei fini ultimi, mediterranei e coloniali, che saranno invece il contenuto della nostra politica avvenire».
Ufficiali del Corpo Speciale d'Africa (1896)L’unità d’intenti tra i filoni colonialista e nazionalista (che per un certo periodo rimasero, almeno nelle prospettive, separati) spinse i relatori del Convegno alla ricerca di una sintesi tra gli ideali risorgimentali di indipendenza nazionale e le necessità dell’espansione coloniale. A fugare ogni dubbio sulla “bontà” della scelta imperialista fu il senatore nazional-conservatore Giuseppe D’Andrea che auspicò, per una Italia «consacrata dal sangue» il «diritto a concorrere all’opera comune di civilizzazione e colonizzazione» con gli altri grandi popoli europei. Venne così superata, quasi senza colpo ferire, la storica contraddizione dottrinaria del nostro colonialismo che tanti problemi politici aveva creato a Pasquale Stanislao Mancini al tempo dell’acquisto della baia di Assab e del rifiuto a partecipare alla spedizione militare britannica in Egitto. D’Andrea però – che per formazione era anzitutto un “nazionalista adriatico” – puntò sulla necessità per l’Italia di espandersi in quei territori balcanici che ne avrebbero garantito la sicurezza e l’avrebbero trasformata definitivamente in una Potenza talassocratica capace di espandersi poi nelle colonie africane. Dunque, prima di tutto, era importante conquistare l’Adriatico e solo poi volgere il proprio sguardo agli altri continenti.
Lo scoppio della guerra aveva inoltre fatto tramontare definitivamente la speranza di veder nascere una “altra Italia” al di là dell’Atlantico e le teorie sul colonialismo demografico in America avevano perso mordente nei circoli nazionalisti e colonialisti. Se infatti in un primo momento l’Istituto Coloniale Italiano aveva puntato tutto sul sostegno alle comunità italiane all’estero dedicandosi poco allo sviluppo delle riflessioni legate all’espansionismo politico-militare, la SAI aveva tenuto la barra a dritta evidenziando come, molto probabilmente, sarebbero sorte non poche difficoltà di fronte al tentativo di fare delle comunità disorganizzate di emigranti le cellule dell’espansione imperiale italiana. Le relazioni si concentrarono quindi sull’importanza di riconsiderare le direttrici lungo le quali s’era sviluppata l’espansione coloniale italiana negli anni Orazio Pedrazziprecedenti e quindi l’interesse maggiore lo attirò l’Africa: il giornalista nazionalista e corrispondente di guerra Orazio Pedrazzi, esperto di questioni coloniali, riferì come in uno studio da lui condotto risultasse che il commercio italiano con i Paesi del Nord Africa era il quadruplo di quello con l’Africa Orientale, colonie italiane comprese. La scarsa produttività delle nostre colonie nel Corno d’Africa era stata già evidenziata negli anni precedenti dalla SAI che ne aveva chiesto la modernizzazione e l’ampliamento delle infrastrutture; sul Bollettino della Società africana d’Italia però più volte ci si era espressi sulla funzionalità d’una espansione nell’Africa settentrionale giudicata nettamente più vantaggiosa. La guerra e la manifesta volontà franco-britannica di spartirsi i possedimenti coloniali tedeschi aveva aperto nuove possibilità di rivendicazioni compensative per l’Italia in Tunisia ed Egitto e, ancora una volta, in Asia Minore ai danni dell’ormai morente Impero Ottomano. Per la Libia – all’epoca ancora divisa tra Tripolitania e Cirenaica – si richiese una nuova delimitazione dei confini che permettesse, con l’assenso franco-britannico, all’Italia di assicurarsi l’accesso alle «vie commerciali e alla regione del lago Ciad» aprendo anche alla possibilità d’una rivendicazione delle cosiddette “terre umide” che l’anno precedente Luigi Federzoni in un discorso alla Camera aveva esteso fino al Camerun tedesco.
L’ultimo punto trattato è di particolare importanza visti anche gli sviluppi futuri della questione: la penetrazione italiana in Africa Orientale sull’onda delle trasformazioni politiche della guerra. Nel programma massimo di rivendicazioni l’obiettivo di accerchiare l’Etiopia appariva palese in quanto si faceva chiaro riferimento al possesso di Gibuti. La città portuale, costruita dai francesi e base della Legione Straniera, era il naturale sbocco marittimo dell’Impero salomonide. I trattati e le convenzioni stipulate tra Parigi ed Addis Abeba avevano portato negli ultimi anni dell’800 alla costruzione della ferrovia che collegava la capitale etiope a Gibuti e che era stata, durante la guerra contro l’Italia del 1895-1896, una linea sicura per il rifornimento d’armi e viveri per le truppe di Menelik. Gibuti era dunque una spina nel fianco per gli italiani e farsela cedere come compenso dai francesi avrebbe tolto all’Etiopia ogni alternativa Logo dell'Istituto Coloniale Italianospingendola ad accettare, prima o poi, un protettorato italiano. Si chiese di ripristinare i protocolli italo-etiopici del 1891 e 1894 così da garantire all’Italia l’esplicazione d’una azione commerciale e politica nei territori dell’Impero salomonide senza, per altro, che fosse stata tenuta in considerazione dalla SAI la sconfitta di Adua del 1896 che aveva alterato e resi obsoleti quei protocolli. Per l’Eritrea si rivendicò Cassala così da poter rafforzare la presenza italiana sulle coste del Mar Rosso mentre per la Somalia lo Jubaland ed un allargamento al suo intero «hinterland geografico» (che comprendeva anche la Dancalia e l’Harrar) secondo le indicazioni di Acquaviva che nel suo citato volume aveva anche tracciato i confini della “Grande Somalia” ottenendo il sostegno incondizionato dell’Associazione Nazionalista Italiana e della Società africana d’Italia.
Seppur passato in secondo piano rispetto al più scenografico Convegno nazionale coloniale per il dopoguerra nelle colonie del 1919 promosso dall’ICI, il Convegno coloniale della SAI del 1917 dettò la linea per la futura politica africana e mediterranea dell’Italia; basti pensare all’influenza che le idee espresse a Napoli ebbero sui diplomatici e sui militari incaricati di studiare nel dettaglio la questione delle rivendicazioni italiane per la pace vittoriosa. La sintesi della linea politica sancita dal Convegno è ben espressa nella relazione di Bartolotti (“Il problema coloniale e la guerra europea”) nella quale è scritto: «Una libera navigazione potrà aversi solo con il diretto dominio sulle sponde opposte» del Mediterraneo e dell’Adriatico e quindi la SAI chiedeva al governo di rivendicare, visti gli sforzi dell’Italia per la vittoria comune, il dominio assoluto sull’Adriatico e la “compartecipazione” al dominio del Mediterraneo con le altre Potenze alleate in condizioni uguali.
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di Filippo Del Monte

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