
Su mandato ONU il 4 dicembre 1992 le forze armate americane entrano in Somalia seguite dalle truppe di Italia, Belgio, Nigeria, Malesia, Pakistan, India, Emirati Arabi e Australia.
L’Italia ha il contingente più grosso, secondo solo agli Stati Uniti. Le prime forze italiane giunsero in Somalia il 13 dicembre. La base operativa italiana venne installata a Balad, a nord di Mogadiscio, mentre un contingente più piccolo venne stanziato nel porto di Mogadiscio. Sulla via Imperiale, strada che attraversava Mogadiscio costruita durante gli anni del colonialismo, l’Italia stabilì cinque checkpoint: Obelisco, Banca, Demonio, Ferro, Pasta.
Il Check Point Pasta è passato alla storia come la Battaglia del Pastificio del 2 luglio 1993 per il duro scontro a fuoco avvenuto tra il contingente italiano impegnato in un rastrellamento per il sequestro di armi, operazione Canguro 12, e i ribelli somali guidati da Aidid.

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Paglia, volontario, era partito per la missione di pace a Mogadiscio il 29 maggio con il 186° reggimento paracadutisti Folgore di Siena, presso la 15a compagnia Diavoli Neri.
Cosa accade quel giorno? Lo racconta Gianfranco Paglia:
“…un’imboscata. Era il 2 luglio del 1993. Di mattina presto, verso le sei, stavamo controllando il territorio e rastrellando delle armi. L’operazione proseguì per un bel po’. Poi, all’improvviso l’agguato. Allora in Somalia non si usavano le bombe, ma si utilizzavano direttamente le persone. Verso le nove si formarono le prime barricate per strada: mandavano avanti le donne e i bambini. Ma alle loro spalle agivano gli aggressori, che cominciarono a spararci. E non poteva esserci alcuna reazione da parte nostra: rischiavamo di colpire donne e bambini.
L’imboscata durò a lungo, e proprio perché non era facile difendersi dalla violenta provocazione. Verso mezzogiorno fui colpito alla schiena da una raffica, che mi prese il midollo. La paralisi fu immediata. Però io riuscii a rimanere lucido. Mi trasportarono prima all’ambulatorio italiano e poi all’ospedale americano, dove mi salvarono operandomi d’urgenza. Ad altri andò peggio. Quel giorno abbiamo avuto tre morti e ventidue feriti.”
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La ferita fu grave e Gianfranco rimase paralizzato dalla vita in giù, ma non si è rassegnato e non si è mai fermato. Ancora in servizio nelle forze armate è il primo caso in Italia di rientro in servizio di una medaglia d’oro.
“Certo – dice – da allora la mia vita è cambiata. Ma io ho cercato di fare di tutto per restare, se possibile un ragazzo normale. Alla rabbia iniziale, è subentrata una grande serenità, grazie anche alla mia fede. Vado avanti, felice per tutto ciò che ho fatto. Non sono pentito, assolutamente rifarei tutto ugualmente.”
Da molti è considerato un eroe, un esempio da seguire, ma lui non ritiene di essere un simbolo e di non aver fatto nulla di straordinario ma solo il suo dovere: “Eroe? È una parola troppo grossa, è meglio non usarla. Ho fatto solo il mio dovere. Più semplicemente, sono un ragazzo, un militare che crede in quello che fa. Andavo a Mogadiscio per una operazione di pace, ho fatto il mio dovere. Adesso penso a chi non c’è più. Da li otto militari e una crocerossina sono tornati in Italia ma nella bara.”
Dovere. Ecco questo è un grande insegnamento, un esempio: “Ho fatto solo il mio dovere”. Teniamolo bene a mente: “Non abbiamo bisogno di eroi, ma di Uomini che facciano il proprio dovere e Vi garantisco che ciò vi darà la possibilità di poter guardare negli occhi chi vi sta di fronte senza mai abbassare lo sguardo.”
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di © Alberto Alpozzi – Tutti i diritti riservati