L’eccidio del cantiere Gondrand a Mai Lhalà

massacro_cantiere-gondrandL’eccidio del cantiere Gondrand in Etiopia avvenne la notte del 13 febbraio 1936, durante la campagna in Abissinia, ad opera di centinaia di armati di Ras Immirù, al comando del fitaurari Tesfai Abai, che avevano aggirato le posizioni italiane durante la notte piombando sul cantiere dell’impresa italiana Gondrand.

L’ordine di attaccare il campo di Mai Lahlà fu dato dallo stesso Ras Imrù al fitaurari Tesfai, perché, come dichiarerà nel luglio 1936: “Lo ritenevo e lo ritengo ancora un atto legittimo di guerra, poiché gli operai erano in zona di operazioni ed erano armati di moschetto”.

La Società Nazionale Trasporti Gondrand era impiegata nella costruzione di nuove strade per congiungere Adua con l’Eritrea. L’impresa , aveva installato, presso il villaggio di Daro Taclè,  il cantiere n° 1, per l’allargamento della strada tra Asmara e Addi Qualà.

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gondrand_cesare-rocca-lidia-maffioliGli operai erano privi di armi, poiché in cantiere si trovava nelle retrovie, ed anche perché il cascì del vicino villaggio di Mai Enda Baria, aveva giudicato provvidenziali i nuovi lavori ed aveva chiesto di poter impiegare i disoccupati del suo villaggio. Nell’eccidio vennero massacrati, mutilati ed evirati 68 italiani, 17 eritrei e 1 abissina (domestica del campo). Tra i morti vi erano il direttore del cantiere ingegnere Cesare Rocca, nato a Milano nel 1890, la moglie Lidia Maffioli, nata a Domodossola nel 1896, (ritrovata uccisa a colpi di pistola, probabilmente per mano del marito per evitarle la cattura) e il vicedirettore ingegnere Roberto Colloredo di Mels, nato a Udine nel 1906. Purtroppo per un quell’errato senso di sicurezza il cantiere non era dotato di armi (vi erano appena 15 moschetti) e di sentinelle: gli operai si difesero con gli attrezzi da lavoro, pale e picconi, fino ad essere totalmente sopraffatti.

eccidio-cantiere-gondrand-corpiSul luogo del massacro il primo sacerdote a giungere fu Fra Ginepro che così descrisse la scena: “L’ingegnere capo, uno dei tre o quattro che erano armati, ha sparato tutti i colpi della sua rivoltella e ora giace con gli stivaloni alti, con la giubba stracciata, col volto che guarda fisso la sua signora. Dietro a lui in doppia fila sono allineati 70 cadaveri, di cui 18 evirati, con uno strato giallognolo al luogo della mutilazione”.

Nella relazione del 9 marzo 1936 inviata al Segretario Generale, al Consiglio ed ai membri della Società delle Nazioni, il Segretario Generale agli Esteri Fulvio Suvich così descriveva lo strazio dei corpi: “l’accanimento bestiale su feriti e cadaveri, molti dei quali totalmente o parzialmente evirati (organi genitali tagliati o strappati) o sottoposti ad altre terribili mutilazioni come lo sventramento, il taglio delle mani e l’asportazione degli occhi”.

Gli uomini del Fitaurari subirono 68 perdite in gran parte dovute all’esplosione accidentale del deposito degli esplosivi del cantiere durante la razzia.

morti_eccidiocantieregondrandI superstiti furono pochissimi, circa una ventina, tra cui il Tenente Clemente Ruggiero che si trovava a Mai Lhalà, con il suo furgone della posta, in sosta  quella tragica notte dell’attacco abissino. Riuscì, con pochi superstiti, a sfuggire verso il fiume Tacazzè. Il Tenente Ruggiero fu poi tra i primi a prestare soccorso ai feriti; invece l’operaio Giuseppe Fornara, riuscì ad allontanarsi dal cantiere nella confusione dell’assalto, portando la notizia dell’assalto ai nostri posti di frontiera. Ritirandosi gli etiopici portarono con se due prigionieri che vennero poi successivamente liberati: Alfredo Lusetti ed Ernesto Zannoni.

La notizia del massacro sollevò grandi impressioni, soprattutto tra gli operai italiani ed ebbe ripercussioni sull’atteggiamento in Etiopia. Capi locali e individui ritenuti colpevoli del massacro vennero impiccati.

Il 7 marzo 1936 oggetti provenienti dalla depredazione del cantiere, appartenenti all’ingegner Rocca, vennero scoperti dagli Spahis libici del 2º Corpo d’Armata italiano durante un’ispezione di alcuni tucul nel villaggio di Adi Anfitò.

cimitero_gondrandI corpi degli italiani insieme a quelli eritrei vennero seppelliti in un cimitero allestito nei pressi del cantiere. I loro nomi vennero inseriti nella lapide in bronzo collocata nel salone della sede centrale della Società Nazionale Trasporti Gondrand  di Milano. Le salme dell’ingegner Rocca e della moglie vennero riportate in Italia negli anni ’60. Il fratello dell’ingegnere, Pietro, nell’occasione chiese che venisse scritto un articolo per commemorare i morti ma nessun giornale divulgò la notizia. Dino Buzzati, sentenziò “che era addirittura una ignominia occuparsi dei morti di una guerra d’avventura, andati in Africa per farsi una fortuna.”

E per concludere sulle orme ideologiche di Buzzati leggiamo anche Luigi Goglia che scrisse “Certamente gli etiopici, che difendevano il loro paese da un’aggressione, avevano qualche ragione in più per compensare la loro debolezza con la ferocia verso l’aggressore; e ras Immerù aveva sicuramente ragione quando rivendicava l’attacco al cantiere Gondrand come un legittimo atto di guerra, e a tutti gli effetti bisogna riconoscere che tale fu. Quanto invece seguì all’entrata degli armati etiopici nel cantiere appartiene al triste capitolo delle atrocità”.

di Alberto Alpozzi – © Tutti i diritti riservati

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8 thoughts on “L’eccidio del cantiere Gondrand a Mai Lhalà

  1. Ormai quasi cinquant’anni fa, da ragazzo, parlai con uno dei soldati italiani che erano arrivati al campo della Gondrand dopo il massacro: mi descrisse gli orrori che erano stati compiuti sui corpi dei disgraziati che erano caduti nelle mani degli abissini. Orrori a cui non erano sfuggiti nemmeno l’ingegnere e sua moglie, e su cui Fra Ginepro pietosamente tacque.

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  3. Quel tragico giorno, in quel campo, c’era anche il mio nonno materno; miracolosamente si salvò fingendosi morto. Era stato colpito da diversi colpi di arma da fuoco. Morì comunque giovane, in periodo di guerra, a seguito della sua salute mai recuperata dopo quei fatti. Di lui ho solo lo sbiadito ricordo dei racconti delle mia nonna, nulla di più. Se qualcuno avesse ulteriori notizie o materiale è caldamente pregato di condividerlo con me. Il nonno si chiamava Bazzaro Antonio e viveva a Trento.

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    • Anche mio nonno materno fu trucidato in quell’assalto. So che era amico di Antonio Bazzaro. Io ho un vago ricordo della Signora Bazzaro che veniva spesso a trovare la mia nonna (con la quale da piccola abitavo) in via Filzi a Trento ai cosiddetti Casoni. Mio nonno si chiamava Giuseppe Pizzo e di lui non so praticamente nulla, anche perché mia nonna non me ne ha mai parlato (era rimasta vedova con 4 figlie, la più piccola delle quali aveva solo 4 mesi. Una di loro era mia madre). Fino a qualche decennio fa in via Filzi c’era una lapide che ricordava mio nonno ma poi è stata rimossa, non so perché. Peccato.

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      • Da quando avevo sei anni fino ai diciassette andavo tutte le sere a dormire da mia nonna: anche lei, come la tua, rimasta vedova molto giovane e mai più risposata. L’ho persa nel 1988 quando aveva 89 anni. Ho il rammarico di non aver mai approfondito la storia di mio nonno, nè quella tragica dei fatti del cantiere Gondrand nè quella degli anni successivi. Ricordo che mi diceva “vado dalla Pizzo” ma non sapevo chi fosse; forse ci sono stato anch’io perchè da piccolo mi portava sempre con se. Rimane comunque il fatto che anche lei non parlò mai volentieri di quello che era successo; troppo doloroso riscordare.

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